il manifesto - 29 Luglio 2003
Viaggio nelle vecchie e nuove povertà/1. A Milano, nella città più ricca d'Italia
La fabbrica dei nuovi poveri
Favela Sesto San Giovanni Sono più di 500 le famiglie di immigrati che vivono in condizioni di estrema povertà nelle aree industriali dismesse dell'hinterland milanese. Tutti ne sono a conoscenza ma si finge di non vederle
CINZIA POLINO
SESTO SAN GIOVANNI (Milano)
Magneti Marelli, Falck, Breda, Richard Ginori. Le chiamano «aree dismesse», sono di fatto cimiteri industriali. Le aree delle grandi fabbriche di Milano e dell'hinterland milanese sono zone morte dove i capannoni e gli spazi interni rappresentano i resti di una civiltà operaia che non c'è più. Soltanto nel capoluogo lombardo sono una quarantina le aree dove sorgevano le grandi fabbriche, pari a circa sei chilometri quadrati. Mentre la città dell'hinterland il cui territorio è stato massicciamente segnato dalla produzione industriale prima e dalla post-industrializzazione poi è Sesto San Giovanni, «città delle fabbriche» a nord est di Milano. Qui le aree dismesse occupano il 20% del territorio con più di due chilometri quadrati. Qui verrà inaugurato entro l'anno, all'interno di un vero e proprio parco archeologico industriale, il Museo dell'Industria e del Lavoro, con sede negli ex magazzini Generali della Breda Siderurgica, al confine con Milano. E sempre qui, in una delle aree degli ex stabilimenti delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck, è presente una baraccopoli di immigrati che si estende su un'area di poco meno di mezzo chilometro quadrato. Si calcola che ci siano almeno 500 nuclei familiari, ma potrebbero essere molti di più. «In 50 metri abbiamo incontrato una cinquantina di immigrati» dice Michele Ferri, segretario della Caritas Decanale che ha visitato l'area assieme a altri due volontari, accompagnati da un interprete rumeno, perché altrimenti sarebbe stato impossibile entrare nell'area, a cui si accede da un buco nel muro, occultato con pezzi di lamiera. Il gruppo più numeroso pare sia proprio quello dei rumeni, poi moldavi e altri popoli dell'est europeo. Però non rumeni rom, «perché gli zingari non accetterebbero di vivere in quelle condizioni». Quali? «Vivono in capanne di lamiera ricoperte di stracci, cartone, materiale di recupero, dove si trovano semplicemente dei materassi buttati a terra e le stoviglie». Spiega Ferri: «Ho visto delle favelas in America Latina, ma le baracche a Sesto sono messe molto peggio. Ci sono i topi e le bisce che circolano liberamente tra i materassi e le pentole, attratti dagli odori dei cibi e del latte materno, perché moltissime donne hanno bimbi neonati o sono incinte».

Le stoviglie vengono lavate nelle vasche di raffreddamento della ex Falck, con l'acqua stagnante. Dice ancora Michele: «Quando ho chiesto a uno di loro perché accettava di vivere in queste condizioni, la risposta è stata che in questo modo riusciva a sfamarsi». Forse, gli immigrati accettano di vivere in questa situazione spinti dalla speranza di migliorare le condizioni di vita: trovare un lavoro più o meno stabile (poiché la maggior parte di loro vive di elemosina) e un alloggio umano. All'atroce situazione abitativa si deve aggiungere la paura degli sgomberi. Alcuni immigrati presentano vistose ferite malcurate, che sono il frutto delle fughe lungo i binari della ferrovia. Finora gli sgomberi sono stati pochi (uno solo nell'ultimo anno e mezzo) e mai tali da far parlare di problema di convivenza con la città. Ma la città di fatto ignora questa situazione. Che nelle baraccopoli ci sia prima di tutto un grosso problema sanitario, lo conferma il dottor Eugenio Redaelli, medico e responsabile della Caritas Decanale: «La situazione igienica è preoccupante. La presenza dei topi, in primo luogo. Il giorno che il proprietario (l'industriale edile Pasini, ndr) vorrà buttar giù tutto e ricostruire, deve prima derattizzare, altrimenti...».

Ma il problema non è soltanto igienico-sanitario, è più in generale un problema politico, un problema relativo all'immigrazione. «La Caritas si interroga sulla questione degli immigrati clandestini in modo più generale», dice ancora il dottor Redaelli. «Vorremmo far qualcosa ma non da soli - spiega - serve l'aiuto del comune di Sesto e anche di quelli limitrofi». Non fa mistero sul fatto che c'è il sospetto di un'organizzazione alle spalle, una sorta di racket che smista le persone nelle diverse zone, per esempio per raccogliere l'elemosina. I medesimi responsabili coordinerebbero l'ingresso nell'area dei diversi gruppi etnici. E proprio per cercare di frenare il racket la Caritas ha ipotizzato l'emissione di un buono spesa, o buono pasto, che tamponi la ricerca di denaro. Invece di fare l'elemosina, il cittadino potrebbe comprare i buoni per gli immigrati. L'aspetto sanitario e quello umanitario sono strettamente connessi e devono essere affrontati politicamente, malgrado la legge Bossi-Fini sull'immigrazione. La Caritas ha più volte richiesto aiuto all'assessorato ai servizi sociali di Sesto, ma in giunta ci sono state forti resistenze. Una parte della stessa maggioranza consiliare di centro-sinistra infatti non ha appoggiato la necessità di assicurare che le forze di polizia non intervenissero a far sgomberare le aree nel caso di interventi di tipo sanitario. «L'ipotesi è quella di trovare un'area dove ci siano almeno acqua e servizi igienici. Le risorse da mettere in campo per fornire un primo aiuto sanitario di base, come eventuali vaccinazioni, ci sono: abbiamo infermieri e medici che possono intervenire».

Già, ma il punto è che il problema non può essere risolto soltanto con il volontariato. Alessandro Pozzi, assessore «ai servizi alla persona e alle politiche familiari» di Sesto San Giovanni si dimostra tanto consapevole quanto rassegnato: «Non abbiamo la reale possibilità di star dietro a questo problema umanitario; il nostro assessorato, rispondendo secondo la norma a queste problematiche, può far fronte, per esempio, alle situazioni dei minori». Afferma che è stato presentato un progetto sulle «estreme povertà» alla Regione, che coinvolge per il coordinamento la Caritas e che prevede, tra l'altro, l'erogazione di un buono pasto per gli immigrati. Dice ancora che c'è la necessità di monitorare le aree dismesse occupate a livello intercomunale. Ma che non c'è la possibilità di individuare un'area alternativa per gli stranieri senza abitazione. Però Pozzi ricorda che quando la commissione comunale si è mossa per andare incontro alle esigenze degli immigrati proponendo la realizzazione di servizi igienici, l'opposizione ha fatto muro. Eppure tutti sono a conoscenza del problema delle aree dismesse, enormi aree «morte» che segnano il passaggio da un'epoca (quella industriale) a un'altra che ancora non si può definire e probabilmente non potrà essere definita fino a quando non avremo risolto il «problema» dell'immigrazione, aree dismesse che intanto restano dolorosamente segnate, da un grosso problema umanitario.