il manifesto - 26 Giugno 2003
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Il filosofo che venne dal Po
Alessandro Cè dalla battaglia per l'embrione alla lotta contro i Lumi
IDA DOMINIJANNI
«Ai cittadini non interessa che l'Occidente diventi il mondo, attraverso l'introduzione del pensiero unico, cioè delle `regolette' illuministiche che, se imparate a memoria, ti garantiscono la patente di occidentale anche se provieni dal centroafrica o dall'estremo oriente. Il cittadino è interessato a che ci sia il rispetto per lui, per le sue c ose, per le sue tradizioni. Chiede, in altre parole, universalismo, cioè unione nelle diversità, e non il colonialismo globale del pensiero unico». Il truffaldino manifesto di filosofia politica che Alessandro Cè pronuncia a Montecitorio è uno dei sintomi più chiari fin qui a disposizione dell'ideologia che si sta aggrumando nel cuore nero della destra italiana. E pur senza attribuirgli la patente di «coerenza» e «dignità culturale» che incautamente gli concede Fausto Bertinotti, è un manifesto che va preso sul serio, perché colloca con precisione l'origine della destra italiana dove va collocata: non sul proscenio comico di un'Italietta minore, improvvisata e provvisoria, ma sul palco tragico della crisi culturale, sociale e politica generata dalla globalizzazione. Sarebbe facile, insomma, liquidare l'esternazione di Cè ricorrendo a un ritratto a tinte forti del personaggio, che già diede ottima prova di sé ai tempi della legge contro la procreazione assistita invitando i maschi italiani a non disperdere il seme e a non confonderlo con quello dello straniero. E sarebbe facilissimo chiosarne con la matita rossa e blu gli strafalcioni, altro che coerenza e dignità culturale: dalla contrapposizione del cittadino all'universalismo a quella fra l'autenticità del popolo e «l'illuminismo» razionalista del Palazzo. Ma sarebbe elusivo e truffaldino a sua volta, il solito modo di ridurre in burletta quel cuore nero di cui sopra che non riusciamo a guardare in faccia.

Recita la filosofia di Cè che la madre di tutti i problemi del presente è «la logica illuministica», in base alla quale «l'Occidente rappresenta una serie di valori che prescindono dalla terra, dagli uomini che la abitano, dalla loro storia e dalla loro identità». L'universalismo, in altri termini, uccide comunità, tradizioni, appartenenze; concede la patente di occidentale solo a chi si lascia assimilare; e dunque il suo vero nome è «colonialismo ammantato di buonismo», mentre il «vero» universalismo sta nella «unione nelle diversità». Alzi la mano chi potrebbe onestamente negare alcuni tratti di verità a questa diagnosi. Senonché la soluzione di Cè e dei suoi è quella nota (condita, va da sé, col consueto appello al popolo che conclude in gloria ogni salmo della Casa delle libertà): reinvenzione reazionaria della tradizione(l'ampolla del Po), arroccamento identitario, chiusura delle frontiere, espulsione dello straniero, superiorità gerarchica della stirpe padana. Ed è qui che comincia non solo la Bossi-Fini, ma la weltanschaung dello scontro di civiltà.

Quando si dice che la crisi della modernità con cui il presente globale deve cimentarsi corre sul filo fra la costruzione di un altro mondo possibile e il precipizio in un mondo impossibile, dice questo: o la cultura della sinistra prende in mano questa crisi e si mette a rideclinare il lessico politico moderno - universalismo e differenza, cittadino e comunità, tradizione e futuro - adeguandolo ai tempi, o tutto lo spazio, culturale e politico, aperto da questa crisi lo occuperanno Alessandro Cè e quelli come lui. Altri paesi e altre sinistre, di qua e di là dall'Atlantico, hanno frequentato questi problemi nell'ultimo ventennio con tutt'altro spessore della discussione pubblica. A noi tocca in sorte Cè. E' ripugnante, ma non è mai troppo tardi per cominciare a discuterne seriamente.