il manifesto - 19 Giugno 2003
Sette giorni e sette notti nell'acqua, con la morte intorno
Dal Kurdistan all'Italia, via inferno. Il racconto dei superstiti del naufragio di un gommone nello Jonio, dove sono morti in trenta
ANGELA MAYR
Ogni giorno cresce il numero degli annegati tra coloro che, in fuga da guerre e persecuzioni, affrontano il mare verso il sogno europeo. Aso, Shoukout, Hassan, Jamo e Azad, tutti kurdi iracheni, sono gli unici sopravvissuti di un naufragio del gennaio scorso. Trenta persone erano morte su quel gommone partito dalla Grecia per l'Italia; cinque i salvati da una nave russa nel canale d'Otranto. Per mesi, rimasti sotto shock, non sono riusciti a raccontare il proprio viaggio. Ieri li abbiamo incontrati a Perugia, nel centro di accoglienza inserito nel programma nazionale di asilo. Tutti giovanissimi, tra pause e pianti ci hanno raccontato un'esperienza estrema. Primo atto del dramma: l'imbarco di 35 persone su un gommone di sei metri per due, in Grecia. Aso, 21 anni, era partito da Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, con un lungo e rischioso tragitto - passando per Raszaia, in Iran, da lì in una macchina fino al lago di Van, in Turchia; poi verso Istambul un pezzo a piedi, poi nascosto su un camion, di nuovo a piedi e in camion fino a Salonicco, e da lì in treno per Atene. Con i trafficanti Aso si accorda per una cabina su una nave passeggeri per andare in Italia: ma sull'autobus che li porta all'imbarco, invece delle 12 persone previste ce ne sono 35. Qualcosa non funziona. Ed ecco che al posto della promessa nave compare un semplice, piccolo gommone.

Nessuno vuole salirci: alla fine, però, salgono lo stesso. «Non avete altra scelta», li minaccia Lions Panaiotis, trafficante greco ora in carcere a Lecce. Prima di caricarli sull'autobus aveva provveduto al sequestro di documenti, coltelli e permessi di soggiorno; poi, appena scesi, aveva fatto ripartire subito il bus vuoto. E così li ha messi con le spalle al muro.

Per ultimo a salire sul gommone della morte è Shoukout, di Suleimaniya, 35 anni, il più vecchio del gruppo. Sua moglie ha venduto tutto per dargli i 2500 dollari richiesti per l'ultima tratta del viaggio. Ci vogliono solo due ore per l'Italia, insiste il trafficante greco. E così, partenza. Verso le sette e mezzo di sera, con un carico di 35 persone ranicchiate, il gommone prende il largo con un solo motore. Dopo due ore viene acceso il secondo motore, che spinge l'imbarcazione a grande velocità - troppa secondo Shoukout che si accorge di una spia rossa di allarme e intuisce il pericolo, al contrario dei due scafisti a bordo. Così, dopo quasi cinque ore, verso mezzanotte la barca, forse solo col motore ingolfato, si ferma. L'acido della batteria danneggia la gomma e un'onda più alta riempie d'acqua lo scafo.

«Quando ci siamo fermati in mezzo al mare con tutto quel buio intorno pensavo che fosse finita, ma speravo che la mattina dopo, con la luce, qualcuno ci avrebbe visto», racconta Aso. Non era così. Per tutto il tempo, giorno e notte, in gennaio, gli sventurati restano in piedi sul gommone semiaffondato, avvinghiati l'uno all'altro, con l'acqua che arriva all'ombelico.

Il pomeriggio del secondo giorno Shervian, un ragazzino di sedici anni che aveva la testa appoggiata sul braccio di Aso, viene travolto da un'onda e inghiottito dal mare. Muore anche Karaman, un ragazzo di diciotto anni che chiedeva acqua. Ma non c'era da bere né da mangiare. Un altro ragazzo cade nell'acqua: Shoukout riesce a recuperarlo, ma verso le tre di notte gli muore tra le braccia. Alle quattro del mattino del terzo giorno muoiono altre cinque persone: c'è tempesta, pioggia, il vento sbatte la barca nel buio di qua e di là. Tra le braccia di Aso muore Mam Kadir, un parente di Shervian. La mattina del quarto giorno Aso si accorge che altri quattro amici suoi non ci sono più: Azad, Amange, Bachtiar e Hajar. «Le onde ci buttavano su e giù, noi ci eravamo tutti legati con la corda per non cadere, per sette giorni non l'ho mai lasciata», racconta Shoukout. «Insieme ad Aso abbiamo legato a noi anche i morti perché non se ne andassero. Li abbiamo girati da un lato per non vederli, avevano il viso deformato e la pelle strappata». Il quinto giorno muore Mam Kassem, padre di sei figli, partito per trovare una cura per la moglie malata di cancro. Alcuni in preda alle allucinazioni, si lasciano andare nell'acqua.

Il sesto giorno crolla anche Aso: sente la voce di Shervian che lo chiama, e gli amici morti. «Vado via, gli porto da mangiare», dice. Shoukout lo trattiene, «aspetta, ora arriva il nostro amico che porta panini e acqua». «La sera del sesto giorno non credevo più di arrivare alla mattina - racconta Aso - e mi sono congedato da mia madre. Ho pregato dio perché le portasse il mio ultimo saluto in sogno». Anche Juma e Hassan sono sicuri di morire. Ma in extremis, la mattina del 12 gennaio a 19 miglia da S. Maria di Leuca compare la nave russa.

Shoukout aveva cercato di dimostrare che non bisogna avere paura, tenendo alto il morale: «ma ho paura adesso, quando penso a cosa abbiamo vissuto». Era stato partigiano peshmerga contro i soldati di Saddam Hussein che avevano raso al suolo i villaggi kurdi; poi, quando è cominciata la lotta fratricida tra le fazioni kurde, aveva deciso di lasciare i peshmerga, sposarsi e fare figli. «Pensando alla mia vita trovo solo sofferenza, guerra e fuga, nessun benessere», spiega Shoukout parlando della sua fuga da Suleimaniya. «Ora mi sento rinascere - dice Hassan - questo paese mi ha raccolto dopo la morte, vorrei ricambiarlo». Non sa che sul suo gommone qualcuno avrebbe sparato cannonate.