A Marrakech, sulla riva del Po
La comunità di migranti arabo-islamici torinese di fronte al disastro della guerra in Iraq
Rapporti peggiori In apparenza tutto va come sempre, però la guerra ha aumentato la repressione e le tensioni con gli italiani

GIANNI ROSSI BARILLI
TORINO
Tra i banchi del mercato di Porta Palazzo, «che sembra Marrakech e invece è Torino», qualche giorno dopo la caduta delle statue di Saddam non si avverte un'atmosfera particolare. Qui a little Islam l'umiliazione e la rabbia degli arabi e dei musulmani contro la prepotenza dell'occidente non si percepiscono tra i colori vivaci delle merci in vendita e quelli, più sobri, delle signore maghrebine che fanno la spesa; e nemmeno nei negozi e nei caffè nordafricani delle strade vicine, o nei gradevoli spazi del centro italo-arabo Dar Al Ikma, dove comunque è in programma un convegno su Lawrence d'Arabia («un ponte tra due culture?»). Per notare qualcosa bisogna entrare in una casa con la tivù sempre accesa sintonizzata su Al Jazeera, dove la guerra viene raccontata da un diverso punto di vista, o insistere un po' con qualcuno che abbia voglia di affrontare l'argomento. Un paio di settimane fa, a Torino, immigrati musulmani hanno partecipato in massa a una manifestazione contro la guerra, finita con violentissime cariche della polizia. Le lamentele dell'imam Bourichi Bouchta, che protestava per il comportamento dei poliziotti e minacciava di inviare a Al Jazeera un filmato sulle botte in piazza, avevano fatto insorgere la destra, costernata del fatto che gli stranieri osassero esprimere opinioni proprie e perfino censurare l'operato della polizia. Adesso, dopo la conquista di Baghdad, l'imam Bouchta dice che «anche se eravamo contro l'intervento degli americani, è andata bene, perché non si sono verificate le peggiori tragedie che si potevano immaginare, come per esempio la guerra chimica. Ora bisogna solo sperare che gli americani mantengano la promessa di portare la democrazia e che non restino lì trent'anni sfruttando le risorse dell'Iraq e affamando gli iracheni».

Il discorso cambia, però, se dagli avvenimenti in Iraq ci si sposta ai loro effetti sul mondo arabo: «I musulmani devono riflettere molto bene, perché per essere in grado di parlare con gli americani bisogna essere forti». Un primo passo verso la soluzione del problema sarà il rovesciamento dei governi arabi filoamericani corrotti che fanno gli interessi loro e dell'occidente anziché quelli del popolo. «Quest'idea - dice Bouchta - si sta facendo strada, e nei prossimi anni assisteremo a molti cambiamenti politici. La guerra in Iraq non porterà la pace». Tutto questo, comunque, non ha niente a che fare con la presenza degli immigrati musulmani in Italia: «Siamo qui come ospiti e rispettiamo le leggi di questo paese, come dimostra il fatto che non c'è stato, neppure in questi giorni, nessun atto di violenza o di disobbedienza da parte della comunità musulmana. Siamo tristi, ma la gente lavora, i bambini vanno a scuola, convivenza e integrazione continuano».

Continuano tuttavia con più fatica, a parere di Kutaiba Younis, segretario dell'Unione democratica arabo-palestinese che a Torino vive da molti anni e lavora come educatore in un dormitorio pubblico. «La guerra - spiega - ha creato un fossato più profondo tra immigrati arabi e italiani. Gli immigrati, nel luogo comune, diventano tutti potenziali criminali e sono sotto tiro. La repressione aumenta e con essa il disagio sociale in cui molti si trovano. Torino per alcuni aspetti è una città all'avanguardia in Italia per l'accoglienza degli stranieri, ci sono spazi di aggregazione, servizi specifici e manifestazioni contro il razzismo. Ma non si può parlare di piena integrazione, le politiche sociali sono insufficienti rispetto ai bisogni. L'emarginazione si manifesta tutti i giorni, con la miseria, la mancanza di diritti e le soffitte senza cesso condivise in dieci. Non bastano i mediatori culturali per rimediare».

«La guerra - afferma Kutaiba Younis - è vissuta come un'aggressione contro tutto il mondo arabo, una nuova crociata. Per questo persino uno come Saddam Hussein ha potuto diventare un simbolo della resistenza araba. Se fosse stato ucciso in battaglia sarebbe diventato un nuovo Saladino; invece questa fine ingloriosa ha prodotto delusione e disorientamento. Le manifestazioni contro la guerra che ci sono state in Italia, comunque, sono servite ad attenuare il senso di isolamento, a creare alleanze, anche se a sinistra qualcuno rimane sconvolto quando sente gridare in piazza «Allah è grande», senza capire che è più un dato di tradizione culturale che una manifestazione di fondamentalismo. C'è tensione, paura e rabbia, ma anche speranza per la presa di coscienza delle masse arabe, che in tanti paesi si sono mobilitate. C'è desiderio di libertà e democrazia, ma c'è il rischio che di fronte all'impotenza la gente trovi rifugio nell'estremismo religioso. Per evitarlo bisogna impegnarsi molto di più per sostenere, anche materialmente, le componenti laiche e progressiste delle società arabe, altrimenti dovremo rassegnarci a Bin Laden».

A casa di Hasti Fatah, architetto kurdo-iracheno a Torino da un quarto di secolo, sposato con un'italiana e padre di due bambini, il televisore trasmette i programmi di Kurdistan tv, con le scene di esultanza dei kurdi liberati da Saddam. «Al di là di chi l'ha causata - commenta Hasti - la caduta di Saddam è una buona cosa. Io però non ero d'accordo con l'intervento unilaterale angloamericano, e i kurdi, pur ringraziandoli, hanno già fatto presente agli americani che se ne dovranno andare. L'occupazione non può durare molto, la gente non vuole una nuova tirannia. E' una bomba a orologeria che può scoppiare o essere disinnescata. Per disinnescarla occorrono saggezza, fiducia nelle capacità di autogoverno negli iracheni e concorso della comunità internazionale. Un discorso analogo vale per l'integrazione degli immigrati musulmani in Italia, che sta facendo dei passi indietro. Bisogna smetterla di descriverli come persone violente o potenziali attentatori, come fa molto spesso la tv, e lanciare messaggi di conciliazione».