il manifesto - 26 Marzo 2003
Città-fortezze in trincea
L'intervento militare degli Usa e dell'Inghilterra contro Saddam Hussein è il sintomo della crisi del neoliberismo. Il mondo che si intravede oltre la guerra all'Iraq sarà bipolare. In entrambi i poli ci sarà l'economia di mercato, crescerà la competizione, ma nasceranno coalizioni e alleanze che renderanno l'economia globale più inclusiva e diversificata. Un'intervista con Saskia Sassen, docente all'Università di Chicago e autrice del noto studio sulle città globali
Le leggi contro il terrorismo volute dall'amministrazione Bush dopo l'11 settembre limitano la libertà non soltanto dei migranti, ma di tutti gli americani
Il movimento globale contro la guerra avrà un ruolo determinante nel dopoguerra perché sta sperimentando forme nuove di cittadinanza transnazionale

BENEDETTO VECCHI
Con voce chiara, scandendo bene le parole, Saskia Sassen non ha dubbi. La guerra degli Stati uniti e dell'Inghilterra coincide con la fine della «geografia unificata» dell'economia globale. E dietro le macerie dell'Iraq si profila un nuovo mondo bipolare che non avrà nulla di quello conosciuto durante la guerra fredda. In entrambi i «poli», infatti, ci sarà l'economia di mercato, ma crescerà la competezione tra stati-nazione e le «coalizioni» che riusciranno a stabilire. Non siamo quindi alla catastrofe del neoliberismo, ma a un «riallineamento politico». Ma dopo questo giudizio espresso quasi senza riprendere fiato, la docente di «economia urbana» all'università di Chicago e alla Open University chiede un po' di tempo per riordinare le idee. E l'interivsta deve quindi snodarsi tra un telefono, una pausa per l'aereo che la conduce da Parigi e Londra, Internet e di nuovo il telefono. Nota per i suoi studi sulle «città globali» e la crisi dello stato-nazione nella globalizzazione economica, Saskia Sassen pensa che bisogna tenere i nervi molto saldi, perché a parlare non ci sono solo le armi, ma anche milioni di uomini e donne che, nella preparazione delle mobilitazioni contro la guerra, stanno sperimentando «pratiche di cittadinanza transnazionali» che influiranno molto sul mondo di questo dopoguerra.

Le spiegazioni della guerra degli Usa e dell'Inghilterra contro l'Iraq sono molteplici. Qualcuno ritiene Saddam Hussein un dittatore, pericolososo per il suo paese e per la stabilità internazionale, ragione sufficiente per cacciarlo via con ogni mezzo. Altri sostengono che la guerra serve agli Stati uniti per appropriarsi delle riserve petrolifere irachene; altri ancora ritengono che l'obiettivo di Bush sia molto più ambizioso: creare un ordine mondiale cucito su misura degli interessi statunitensi. Per te invece?

La terza che hai detto. Ma prima di risponderti, voglio fare una premessa per me importante: questa guerra è illegale dal punto di vista del diritto internazionale e ingiustificata dal punto di vista della minaccia reale rappresentata da Saddam Hussein. Detto questo, sono convinta che l'intervento militare in Iraq fa parte di un progetto più ampio che va ben al di là del mutamento degli assetti politici a Baghdad. Bisogna però capire chi vuole questa guerra e quali saranno i benefici per gli statunitensi. Per noi americani, il bilancio sarà disastroso. Costerà un mare di soldi. L'ultima stima ufficiale è che la guerra all'Iraq costerà 75, 80 miliardi di dollari in più di quello previsto in precedenza: una cifra enorme che peserà sul già enorme deficit di bilancio. Sono convinta inoltre di quanto sostengono la maggior parte degli analisti, che sono persuasi che questa guerra non porterà benefici all'economia. Magari andrà bene alle imprese scelte due settimane fa dal governo statunitense per ricostruire l'Iraq. Al di là del fatto che Bush ha preso questa decisione quando all'Onu era ancora aperta la discussione sull'intervento militare o meno, va sottolineato che anche in questo caso solo alcune imprese participeranno alla spartizione della torta. Quindi possiamo dire che la guerra la vuole solo una parte dell'establishment economico.

Stando ai sondaggi, sembra però che gli americani la adorino: per loro è uno spettacolo grandioso - e in effetti le immagini sono drammaticamente sbalorditive. Un vero evento mediatico. Ma è una guerra dichiarata in un contesto in cui il governo ha posto un'alternativa secca: o con noi o contro di noi. L'amministrazione Bush ha fatto dunque leva sul patriottismo. I media si sono poi dilungati sulla notizia che Bush e la Rice pregano insieme in ginocchio nello Studio ovale, evocando il profondo puritanesimo della società americana e ingigantendo l'immagine di una nazione unita dalla preghiera. A tutto ciò, possiamo aggiungere una variabile che sta pesando molto nelle decisioni di George W. Bush e che riguarda un sentimento di intolleranza dell'establishment neo-conservatore verso tutto ciò che potremmo definire «diversità su scala globale». Gli Usa hanno costretto gran parte delle nazioni a diventare neoliberiste, cioè a intraprendere politiche di privatizzazione, di apertura dei mercati interni agli investimenti esteri, anche se questo significava lasciar morire di fame le rispettive popolazioni. Credo, però, che gli Stati Uniti stiano abusando del proprio potere. Storicamente, quando questo è accaduto abbiamo assistito alla fine dei grandi imperi. È forse un'ironia della storia, ma quando un potere è assoluto, vengono a mancare alcune condizioni che lo disciplinano e questo porta alla sua crisi.

Dall'11 settembre in poi, c'è stato un gran parlare di recessione economica. Le borse sono crollate, molte imprese dot.com sono state spazzate via dal ritorno dell'Orso a Wall Street, gli Usa hanno scoperto che molte corporation, come la Enron, hanno barato. La recessione non si presenta quindi solo come una crisi economica, ma come crisi sociale e politica del capitalismo neoliberista. Può essere anche questa una spiegazione del «perché la guerra». Non credi?

Sì, stiamo assistendo a una profonda crisi del neoliberismo, compresa una crisi della sua legittimità. A livello generale, l'economia globale non ha mantenuto la sua promessa di una prosperità di cui avrebbero beneficiato, chi più chi meno, gran parte degli abitanti del pianeta. I «programmi di aggiustamento strutturale» del Fmi non hanno certo favorito i paesi del Sud del mondo. In molti casi è piuttosto accaduto il contrario: basti pensare che alcuni stati hanno quasi dichiarato bancarotta. Ma la crisi di credibilità del neoliberismo riguarda anche gli Stati uniti. Negli Usa, infatti, e nonostante tutte le chiacchiere sulla trasparenza aziendale, le frodi perpetrate da alcune imprese e la crisi delle borse hanno provocato la perdita della pensione per decine di migliaia di lavoratori, provocando in molti settori della popolazione una sfiducia totale nel neoliberismo.

Secondo te questa convergenza tra crisi economica e crisi di legittimità spiega anche il terremoto politico che ha accompagnato le fasi precedenti la guerra. Mi riferisco alla divisioni all'interno dell'Unione europea, alla crisi dell'Onu, alla tensione tra Chirac e Bush....

E' indubbio che i disaccordi sulla guerra in Iraq avranno conseguenze globali. Tuttavia, più che un terremoto politico io parlerei di «riallinenamenti» politici. Secondo me, ci sarà il ritorno a un mondo politico bipolare che sancirà la frammentazione della globalizzazione economica. E tutttavia i conflitti di cui parli non hanno inferto un colpo mortale al progetto politico-economico neoliberista. Il mondo che uscirà dalla guerra con l'Iraq sarà sì bipolare, ma non avrà nulla a che fare con quello conosciuto durante la guerra fredda, perché le economie di mercato sono la costante in entrambi i poli. Vivremo cioè in un mondo dove il capitalismo è il modello dominante, anche se ci saranno diversità politiche, ad esempio, sul ruolo dello stato nell'attività economica. In fondo, già adesso ci sono corporation americane che hanno la leadership in alcuni settori, mentre sono francesi le imprese che, ad esempio, fanno la parte del leone nella produzione e nella gestione delle risorse idriche. E l'acqua sarà il futuro petrolio bianco. Un altro criterio con cui guardare al mondo bipolare è quello delle città globali.

Negli ultimi anni, Parigi e Francoforte sono emerse come centri finanziari globali, mentre prima erano molto indietro rispetto a New York e Londra. Questo è significativo per comprendere cosa accadrà in futuro, perché le città globali concentrano le risorse e le capacità per la gestione e l'assistenza delle operazioni globali dei mercati e delle aziende. Questa caratteristica, che in passato ho definito le piattaforme locali dell'economia globale, assegna loro anche un forte potere attrattivo per il business. Possiamo quindi ragionevolmente prevedere che, ognuna per conto suo, le metropoli che ho citato saranno in competizione tra loro, ma potranno anche stringere alleanze. Mi sembra che è quanto stia già accadendo. Quello che voglio dire è che il mondo bipolare che si profila all'orizzonte incoraggerà sì la competizione, ma favorirà anche coalizioni tra economie nazionali forti e l'alleanza tra queste e quelle deboli.

La crisi della geografia unificata dell'economia globale non va quindi giudicata come una catastrofe, perché la sua frammentazione porterà benefici, ad esempio, ai paesi esclusi o ai margini del neoliberismo. In sintesi, in un mondo politicamente bipolare l'economia globale del prossimo futuro sarà più inclusiva e diversificata.

Il movimento antiglobalizzazione è stato uno dei protagonisti dell'opposizione alla guerra in nome di un'alternativa al neoliberismo. Il New York Times ha parlato di un'altra superpotenza nel mondo dopo gli Usa, il movimento antiglobalizzazione. Come valuti le mobilitazioni di questi ultimi mesi contro la guerra?

Credo che il movimento antiglobalizzazione svolgerà un ruolo cruciale nel ridisegno del mondo. E' infatti un movimento globale che propugna una cittadinanza globale, fattore che gli consente un protagonismo politico impensabile solo fino a pochi anni fa. In un'intervista con il manifesto (Marco d'Eramo, 22/04/2001) avevo affrontato il tema delle «micropratiche della cittadinanza». Potremmo dire che ora ci troviamo di fronte a pratiche di cittadinanza transnazionale. Nel caso dell'Europa, questo è quanto sta emergendo con forza nel movimento contro la guerra in Iraq. Mi sembra cioè che i cittadini europei stiano andando oltre i propri leader nazionali, visti alternativamente come eroi (Chirac) o come farabutti (Blair), e stiano incominciando a costruire una pratica di cittadinanza europea che supera gli stati nazionali e i partiti politici nazionali.

I cittadini, e uso questo termine nel senso più ampio, non solo formale, dei paesi europei i cui governi sono storicamente rivali (Francia e Regno Unito, Francia e Germania), ora si uniscono attraverso le frontiere. Le immagini delle manifestazioni contro la guerra veicolate dai media globali alimentano questo sentimento politico che potremmo definire universalistico. Un senso di «europeità» sta nascendo ed è molto più sofisticato di quello che misura la Commissione europea per aumentare la partecipazione dei cittadini. Chi manifesta la sua contrarietà alla guerra mette l'accento su questa cittadinanza transnazionale e non sul conflitto fra Blair e Chirac. Così, gli inglesi vedono Blair un leader politico che mette in pericolo l'Europa e Chirac un po' come un eroe. Allo stesso modo, i francesi pensano che Chirac debba gestire il conflitto con Blair in vista del rafforzamento dell'Europa e non solo in funzione della difesa degli interessi nazionali.

La guerra non ha solo degli effetti nei luoghi dove si combatte, ma anche all'interno dei paesi che l'hanno voluta. Dopo l'11 settembre, l'amministrazione Bush ha emanato delle leggi che limitano la libertà di movimento per i migranti e alcuni diritti civili.... Le città globali diventeranno delle fortezze presidiate militarmente?

Certamente. Non c'è alcun dubbio che la guerra in Iraq avrà delle ripercussioni globali e quindi anche negli Stati uniti. Il Patriot Act, la legge approvata dal parlamento dopo gli attacchi dell'11 settembre, ha ridotto i diritti legali dei migranti e di alcune minoranze. La paura degli attacchi terroristici porterà a una militarizzazione degli spazi pubblici, dei sistemi di trasporto. Questo è un elemento potenzialmente fascista all'interno degli Stati Uniti che prima o poi ci toccherà tutti, cittadini o migranti, minoranze sospette o meno, poveri o ricchi.

A proposito delle città globali che diventano fortezze ci sono alcuni dati interessanti del Dipartimento di Stato sugli anni Novanta che mostrano come, dopo il 1998, le città siano diventate il principale obiettivo degli attacchi terroristici. E' inoltre molto probabile che la guerra contro l'Iraq avrà quello che alcuni studiosi chiamano un «ritorno di fiamma», cioè spingere un numero impreciso di «indecisi» alla scelta terrorista e che le metropoli diventeranno sempre più «obiettivi sensibili».

Da quando Bush e Blair hanno iniziato a parlare di guerra, abbiamo assistito all'aumento del livello di allerta in città come Londra o New York. Con il mio gruppo di studio sulle città globali abbiamo fatto una ricerca sui giornali Usa per vedere se dall'11 settembre ci fosse stato da parte dell'amministrazione Bush una qualche ammissione relativa due fatti: a) se il dipartimento di stato avesse mai diffuso questi dati; b) che andare alla guerra con l'Iraq avrebbe aumentato le possibilità di attacchi alle città americane più che ai militari ammassati nel Golfo. Non possiamo diventare paranoici e pensare che le città diventeranno stati-fortezze. Considerato quanto odio e disperazione ci sono nel sud del mondo, considerato la violazione del diritto internazionale e le sofferenze per i civili rappresentate dal bombardamento dell'Iraq, è sorprendente quanto poco terrorismo contro gli Stati Uniti ci sia. Ma da oggi, forse, la situazione cambierà, visto che gli Usa stanno offrendo molti incentivi per spingere molti giovani a varcare quella soglia oltre la quale c'è la scelta di morire combattendo contro il mio paese.