il manifesto - 21 Febbraio 2003
Sull'altare della violenza
Da oggi in libreria, «Terroristi in nome di Dio» di Mark Jürgensmeyer
FILIPPO GENTILONI
Il rapporto fra il terrorismo e la religione non è una novità, ma i drammatici fatti recenti richiedono una analisi più approfondita. E' l'esigenza alla quale risponde egregiamente il volume di Mark Jürgensmeyer che esce proprio oggi in traduzione italiana: Terroristi in nome di Dio. Attraverso le religioni del mondo, un viaggio imprevedibile nella mente di chi uccide per fede (Laterza, pp. 338, euro 18,00). La prima parte del volume è un'analisi e un compendio dei vari terrorismi alimentati dalle varie fedi religiose, anche se è chiaro che i due termini del rapporto variano da caso a caso. Soprattutto il termine «religione» richiede continue precisazioni, oscillando fra fede, rivelazione, etica, sacro, ma anche civiltà, società, cultura. Jürgensmeyer in capitoli ricchi di documentazione di prima mano analizza la matrice religiosa di vari terrorismi: negli Usa, ad esempio, gli attentati compiuti da fondamentalisti vari contro l3 cliniche per aborti. Poi il terrorismo ebraico, arrivato alla uccisione di Rabin. Il grande mare, ancora non abbastanza studiato, del terrorismo di matrice islamica. Ma anche la spada dei sikh in India e gli attentati ispirati da gruppi di matrice buddista nella metropolitana di Tokio. Più vicino a noi, la violenza fra cattolici e protestanti in Irlanda.

Nella seconda parte il volume affronta «la logica della violenza religiosa». Come mai? Nonostante gli infiniti appelli alla pace, nonostante le pagine pacifiche e pacifiste dei vari libri sacri. Come mai? La risposta non può essere che articolata e complessa. Chiama in causa, in primo luogo, l'assolutezza della pretesa. Ogni religione pretende per sé la verità e combatte l'altro perché sbaglia. La guerra del Bene contro il Male, quindi, della verità contro l'errore. Una guerra che si pretende benefica. E che richiede una scena, uno spettacolo, un pubblico che condivida ed applauda. Una violenza che richiede i martiri, che con il loro sangue firmano, testimoniano, chiamano in causa i valori ultimi, assoluti. Le tragedie di questi tempi, dalle Torri Gemelle alla Palestina confermano.

Anche se può sembrare assurdo, le religioni trovano nel terrorismo una sorta di paradossale conferma del loro valore, della loro capacità di presa sulle coscienze. Il terrorismo di origine sacrale sembra dire al mondo che la grande sfida della secolarizzazione non ha vinto la sua battaglia: il sacro che sembrava sconfitto si prende le sue rivincite.

Se è relativamente facile individuare le cause che stringono il terrorismo in un abbraccio con il sacro e la religione, è molto più difficile individuare le cause che potrebbero allentare questo tragico abbraccio. Qualche cosa che, da una parte, non costringa le religioni alla morte, come ha cercato di fare - forse invano - la moderna secolarizzazione. Ma che, dall'altra, tolga alla violenza quel manto di sacralità che la nobilita e la rende, quindi, molto più pericolosa.

I tentativi in questo senso si sono moltiplicati: lo stesso Jürgensmeyer ricorda più volta il ben noto tentativo di Renè Girard (i suoi volumi sono pubblicati in Italia da Adelphi) che ha sostenuto il valore del rito religioso, come sostitutivo simbolico della violenza: il «capro espiatorio» potrebbe - dovrebbe - sostituire la violenza simbolica a quella reale.

Per staccare la spina fra religione e violenza e quindi per sconfiggere il terrorismo «in nome di Dio» Jürgensmeyer indica due strade da percorrere con decisione, anche se non sono nuove. La prima è che le varie religioni recuperino il loro valore autentico: la verità che ciascuna sostiene dovrebbe lasciare da parte gli aspetti rigidi, assoluti - fondamentalisti appunto - per fare spazio al dialogo, alla libertà, al confronto. La seconda è che la religione prenda le distanze dalla politica, rinunci, quindi, a presentarsi come la bandiera della società e dello stato.

Sarà possibile? Questi auspici non sembrano di facile realizzazione, neppure nel nostro occidente (si vedano i rigurgiti di fondamentalismo violento negli Usa), figuriamoci altrove, come nel mondo islamico dove la distinzione fra religione e politica è ancora indietro.

Jürgensmeyer ricorda un interessante colloquio avuto in un carcere americano con un condannato per terrorismo che lo rimproverava per la «mancanza di morale e di obbiettivi spirituali». Diceva: «La gente del modo laico si limita a vivere un giorno dopo l'altro, cercando un lavoro, un denaro per vivere». E aggiungeva: «come pecore».

Le religioni, dunque, si trovano di fronte a un grande compito: dimostrare che la vita ha un senso anche senza assolutizzare la propria verità.