il manifesto - 13 Febbraio 2003
Una poetessa inviata in Islam
Questo pomeriggio, la poetessa scozzese Kathleen Jamie leggerà al British Council di Roma, alle 18.30, alcuni tra i suoi versi, e qualche pagina tratta da «Among Muslims», un lungo reportage alle frontiere del Pakistan, aggiornato dopo l'11 settembre, grazie alla committenza del suo editore. Che la invitò a tornare lungo quei confini dove il luogo comune vedeva schierato l'antagonismo di due civiltà
MARIA BAIOCCHI
«Gli scrittori che viaggiano in terre lontane devono sempre viaggiare in prima classe e scendere nei migliori alberghi. Altrimenti incontrano pericoli e difficoltà su cui poi scrivono noiosissimi libri e diventano deprimenti»: lo ha scritto Hilary Mantel, cui di certo non manca il gusto della boutade; si vede, però, che le manca l'esperienza di fondamentali letture, come quella, per esempio, dell'atipico diario del viaggio, sicuramente non in prima classe, di Kathleen Jamie, autrice di un singolare reportage titolato Among Muslims, che unisce il gusto delle situazioni estreme e degli scenari incontaminati alla curiosità, anzi all'interesse profondo, per modi di vita altri nei quali (è questa la buona novella per lo spaventato, sbigottito Occidente di fronte al diabolico adoratore di Allah) potremo facilmente riconoscere uomini, donne, bambini a noi così vicini, sebbene geograficamente lontani. Nata in Scozia quarantuno anni fa, Kathleen Jamie ha studiato filosofia a Edinburgo, è una delle voci più interessanti della poesia inglese contemporanea, e prima di raccontare i suoi incontri alle frontiere con il Pakistan ha composto svariate raccolte di versi. Questo suo ultimo libro, Tra i musulmani nasceva col titolo The Golden Peak, come testimonianza di un viaggio intrapreso nei primi anni `90, su per le cime del Karakorum. Viaggio di ascesa di una montanara, una scalatrice, una poetessa. Ma anche, ed è questo che più ci interessa, viaggio di contaminazione e di «scoperta», in un senso tutto contemporaneo e tutto personale. Kathleen Jamie non è turista, e tantomeno «turista per caso», crede nella possibilità di mettere ordine nel caos, di trovare l'uguale nel diverso, senza preoccuparsi di «rendere» uguale il diverso: insomma, a differenza di tanti poeti contemporanei che si sono magistralmente impegnati a spiegarci tutto quello che la loro poesia non avrebbe fatto, tutto quello che «non volevano», Kathleen Jamie, con molta poetica umiltà sembra tirarsi su le maniche e guardare a quello che possiamo fare. Nelle sue pagine di viaggiatrice incantata si sente circolare, perciò, una aria nuova, una insubordinazione - «perché un po' di disordine non ha mai fatto male a nessuno» - rispetto ai canoni classici del «viaggiare guardando». La Jamie viaggia facendosi guardare, è l'osservatore osservato, ma non quello che posa sul mondo il suo benevolo, accondiscendente occhio antropologico, rallegrandosi di trovare nello sguardo dell'altro uno specchio deformante che non lo turba (tuttalpiù lo diverte) tanto è sicuro di sé. Kathleen Jamie si espone, si lascia toccare, in senso stretto e figurato, e cerca, col poco urdu che conosce e col linguaggio dei segni e la complicità di qualche ragazzino che parla un po' d'inglese, di raccontarsi a quelle persone, mentre le scopre e le racconta a noi.

Dopo l'11 settembre, a distanza di anni dalla prima uscita del libro, Kathleen Jamie accetta la proposta dell'editore che le chiede di tornare in quei luoghi, di incontrare ancora quelle persone, di scrivere di nuovo di quella insolita esperienza, investendola di una luce ulteriore. Quando riparte, una volta di più è animata da un ottimismo contro corrente, essendo forse convinta che nel mondo si possano, si debbano, diffondere una molteplicità di «regioni autonome», quelle della poesia, della libertà, della consapevolezza, della pacifica diversità, insomma le regioni della ragione, o almeno della ragionevolezza.

Il padre di una ragazza col velo esclama ridendo e con una certa soddisfazione che è «come una tenda che cammina!», allora la Jamie di rimando: «credi sia una buona cosa che le tue figlie abbiano l'aspetto di tende ambulanti?» «Stanno in santa pace, non hanno di che preoccuparsi» è la risposta del padre. E la ragazza, che si chiama Rashida, annuisce, «siamo contente così». Il commento della Jamie riflette sul fatto che - come scrive - «Mi ammirano e mi compiangono. Io le guardo e vedo in loro l'illusione ottica della protezione e dell'oppressione. Loro guardano me e vedono l'illusione della libertà. La terribile libertà dell'anima vagante». Ma l'incontro con una donna occidentale e libera come Kathleen Jamie, lungi dal creare invidia e desiderio di fuga nella giovane Rashida, la spinge a scrivere una lettera alla nuova amica scozzese ancora in viaggio per i ghiacciai. Le spiega, in quella lettera, che lei e le sue sorelle musulmane sono pronte ad accoglierla, se vuole; e, sempre che lei accetti di vivere come loro, le troveranno anche marito. Insomma le offriranno riparo dalla devastante «libertà» che affligge la donna occidentale.

Kathleen Jamie vorrebbe dire loro che - malgrado le distanze - c'è un fondo comune, che avvicina le vite dei villaggi del mondo, quelli della Scozia come quelli del Batistan, giardini, orti, fiume, ospitalità, fantasmi, bambini. Solo che, nota con un po' di malinconia, per le strade inglesi i bambini sembrano essersi eclissati per troppa ansia di «sicurezza». Sui villaggi della Scozia, sulle leggende scozzesi e su quelle tibetane, sulla quotidianità illuminata dalla percezione del fantastico tornano di frequente le sue poesie, raccolte in quattro libri, che le sono valsi svariati premi: The Queen of Sheba (1994) è una delle raccolte più amate, The Way We Live (1987) comprende `Karakoram Highway', i versi scritti nel Pakistan del nord, The Autonomous Region (1993) è una sorta di diario poetico della sua ascesa verso Amdo e il Tibet, illustrata dalle foto di Sean Mayne Smith.