il manifesto - 09 Febbraio 2003
Quell'Islam made in Europa
Nel vecchio continente, i musulmani di seconda generazione si trovano di fronte ad un bivio. Percepiti spesso come il nemico interno, alcuni abbandonano la religione dei padri, altri la reinventano, mettendo in discussione la leadership religiosa. Un'intervista con Stefano Allievi, studioso da anni delle comunità islamiche europee
STEFANO LIBERTI
Percepito come un'entità estranea e minacciosa, in particolar modo dopo gli eventi dell'11 settembre 2001, l'islam è una realtà profondamente radicata in Europa. Al di là degli scenari allarmistici di scontri di civiltà evocati da alcuni e degli appelli di altri contro «un'islamizzazione del continente», sono rari gli studiosi che riflettono in modo approfondito e sereno su questo islam interno all'Occidente. E ancor meno sono quelli che approfondiscono la vita all'interno delle comunità musulmane presenti nei nostri paesi, le dinamiche di aggregazione, le contraddizioni, i profondi cambiamenti che le attraversano. Fra questi, sicuramente spicca il sociologo Stefano Allievi, che da più di un decennio si occupa di islam europeo e che ad esso ha dedicato diversi libri, fra cui il recente Musulmani d'Occidente (Carocci, € 13,50) e un altro in corso di stampa per Einaudi sui musulmani italiani. Come non ha mancato di ripetere nel corso di un convegno organizzato la settimana scorsa dall'associazione Parsec al Goethe Institut di Roma dal titolo «Islam e coesione sociale: negoziazione delle diversità», Allievi è ormai convinto che sia possibile parlare di una sorta di processo di indigenizzazione dell'islam trapiantato nel vecchio continente, ossia di uno sviluppo, progressivo ma ineluttabile, di uno specifico modello europeo.

Professor Allievi, come nasce e si sviluppa questo islam europeo?

Il primo elemento da prendere in considerazione per comprendere la genesi di questo modello è il fatto che i musulmani che vivono in Europa si trovano in un'inedita situazione di minoranza. Arrivando da un contesto in cui l'islam è maggioritario e dominante, gli immigrati di prima generazione si sono confrontati, una volta giunti in Europa, con un grosso problema teologico, che poi è soprattutto di natura pratica e sociale: vedono stravolti i propri punti di riferimento, ribaltate le proprie categorie di lecito e illecito. Si vedono quindi costretti a ridefinire i propri modi concreti di credere, la loro prassi religiosa. La prima generazione ha difficoltà a introiettare questa nuova situazione e sviluppa per lo più blande forme di adattamento. Ma già i figli degli immigrati, la cosiddetta seconda generazione, nascono e socializzano in Europa, ne assorbono il clima e le caratteristiche specifiche, come il pluralismo, la laicità, la libertà di espressione. Alcuni di loro si secolarizzano, si endogenizzano (ossia diventano come tutti gli altri);altri invece recuperano l'identità religiosa dei padri, ma in chiave diversa. Rivedono cioè l'islam tradizionale dei genitori alla luce dei cambiamenti che hanno ormai interiorizzato.

In che cosa si differenzia concretamente l'islam di seconda generazione da quello di prima?

Il primo elemento di differenziazione è di natura ambientale: andando a scuola e interagendo quotidianamente con i loro coetanei non musulmani, i giovani figli di immigrati si confrontano quotidianamente con questioni che i loro padri considerano tabù: i rapporti pre-matrimoniali, l'omosessualità, i matrimoni misti, il consumo di alcool. Si pongono i problemi legati alla prassi religiosa, li rielaborano e spesso trovano risposte originali. In secondo luogo, l'islam dei figli si apre a modalità diverse di ridefinizione del discorso religioso, ad esempio attraverso il mondo associativo, che è molto più variegato e multiforme di quanto si creda.

Questo divario tra l'islam dei figli e quello dei padri non ingenera situazioni di tensione?

Senza dubbio. È proprio questo ordine di motivi che spiega i conflitti di leadership nelle moschee che si registrano in alcuni paesi del vecchio continente. I padri infatti tendono, spesso a prezzo di grandi sacrifici, a chiamare gli imam dal paese di origine. Per loro è una forma di sicurezza, perché ritrovano un punto di riferimento noto e si sentono reinseriti in qualche modo in un contesto conosciuto. Rispetto ai figli, invece, non c'è alcuna forma di comunicazione: questi imam sono del tutto privi di un linguaggio e talvolta anche di una lingua comune con loro. E allora i giovani non vanno più in moschea. Oppure, cercano di cambiare la situazione, di prendere per così dire il potere. E in molte associazioni islamiche e in molte moschee il quadro sta cambiando.

Il recupero dei valori religiosi per molti giovani figli di immigrati non può essere considerato un rifugio identitario di fronte ad una socializzazione incerta, lo sviluppo di un'identità religiosa come contrappeso ad una marginalizzazione sociale?

In parte è sicuramente così. I giovani sono alla ricerca di un'identità che né l'etnia di appartenenza né il paese d'origine dei padri sono più in grado di fornire. Ma il problema è che i sociologi, come peraltro i giornalisti, vogliono sempre individuare una sola tendenza. I figli degli immigrati musulmani sono allora o completamente secolarizzati o completamente reislamizzati. La verità è che entrambe le cose stanno accadendo: una parte si secolarizza, un'altra recupera l'identità religiosa. O meglio, come ho già detto, la reinventa. Ricollegandoci al discorso di prima, possiamo dire che, in estrema sintesi, il processo può essere riassunto così: i padri sono musulmani perché sono senegalesi, marocchini, egiziani, pakistani, turchi. Lo sono per tradizione. I figli, quando e se sono musulmani, lo sono proprio perché non sono più né senegalesi, né marocchini, né egiziani, né pakistani, né turchi. Allo stesso tempo, però, non sono ancora europei.

In quale misura è possibile parlare di fenomeni di feedback di questo modello europeo sui paesi di origine?

Si tratta di un fenomeno senza dubbio esistente, che è però difficile da quantificare. Gli elementi di feedback sono legati innanzitutto ai forti punti di contatto tra le due realtà, quella del paese d'emigrazione e quello di immigrazione. Un primo ordine di contatto è rappresentato dai ritorni periodici nella patria d'origine. Tali ritorni, con il loro corollario di contatti con i coetanei rimasti in patria, veicolano inevitabilmente i nuovi comportamenti o le nuove attitudini intellettuali, acquisiti nel paese di accoglienza, anche nel campo religioso. I giovani non si confrontano solo sulle scarpe nike e sui jeans, ma anche sugli aspetti religiosi. La fascinazione, insomma, non riguarda solo il consumismo, ma anche la sfera culturale. Un secondo punto di contatto è rappresentato da Internet: ormai esistono più siti web a contenuto islamico in inglese che in arabo. L'inglese si sta affermando come lingua veicolare della umma. Tutti i siti prodotti dai musulmani in Europa e negli Stati uniti hanno un'impostazione culturale e ideologica ben precisa, diversa da quelli dei paesi di origine, ma vengono utilizzati anche dai musulmani in Indonesia, in Pakistan, in Malaysia e altrove. C'è poi la televisione: le parabole, che fanno ormai parte del panorama consueto di diversi paesi musulmani, non vengono usate solo per guardare la Bbc, la Cnn, i canali sportivi o Al Jazeera, ma anche le tv arabe che hanno sede in Europa. Nbc, per esempio, che ha sede a Londra, ha programmi religiosi sviluppati per rispondere alla «mentalità» dei musulmani europei, programmi che vengono guardati anche nei paesi di origine.

Nonostante lo sviluppo di un modello autoctono, l'islam continua tuttavia ad essere percepito in modo conflittuale, soprattutto in Italia. Perché?

La percezione conflittuale è parte integrante della storia dei rapporti reciproci tra Islam e Occidente. In questi quattordici secoli, non si è fatto altro che percepirsi in modo conflittuale. Io credo che da questo punto di vista ci siano due ordini di problemi: il primo è il peso di questo passato che non passa; il secondo è legato al fatto che l'islam mette davvero in crisi un equilibrio europeo che noi riteniamo acquisito ma che in realtà è fragile. Oltretutto, a livello geo-politico l'islam è oggi più visibile, molto più attivo di quanto fosse trent'anni fa. Tuttavia, io sono convinto che quella attuale sia una situazione temporanea: il gioco della conflittualità non può più funzionare nel momento in cui le due realtà cominciano ad essere compenetrate. Per questo ritengo che bisogna dare fiducia al tempo: con la presenza più diffusa, più capillare di musulmani europei, gli stereotipi verranno confutati dalla realtà. Oggi siamo in una fase conflittuale perché il nuovo arrivato genera comunque inquietudine e paura. Simili fenomeni di rifiuto e di tensione colpivano anche gli immigrati italiani negli Stati uniti. Ecco perché credo che bisogna cominciare de-islamizzare la questione dell'islam e a comparare di più.

Non passa tuttavia settimana senza che le forze dell'ordine arrestino presunte cellule di al Qaeda sul nostro territorio, con operazioni che nella maggior parte dei casi si rivelano completamente pretestuose. Queste operazioni, e la loro sovra-esposizione mediatica, non rischiano di acuire le tensioni?

In questa particolare congiuntura storica e politica mondiale, l'attacco all'islam rende molto. Queste operazioni di polizia danno visibilità, permettono avanzamenti di carriera. Lo stesso può dirsi per ambiti più commerciali: tanto per fare un esempio, i libri che attaccano in modo virulento e stereotipato l'islam si vendono oggi con estrema facilità. Non bisogna poi sottovalutare un elemento di politica internazionale: visto che dobbiamo andare a far la guerra ai paesi islamici, il fatto che si continuano a trovare nemici interni, che appartengono a quel mondo percepito come nemico, rafforza questo clima di contrapposizione. Non dico che questi arresti siano tele-guidati da qualche mano occulta, ma certamente esiste un clima generale che facilita l'acuirsi delle tensioni. In questo momento, le tensioni con il mondo musulmano fanno comodo ma, come dicevo prima, i conflitti non sono sostenibili a lungo per società come le nostre. Ecco perché, in chiave puramente sociologica e non politica, ho interpretato le recenti aperture del ministro degli interni Pisanu nei confronti dell'islam moderato come un modo per uscire dal conflitto. E peraltro non bisogna dimenticare che ogni paese ha vissuto, rispetto all'islam, il suo periodo conflittuale: in Francia c'è stato il caso dell'hijab a scuola, in Inghilterra il caso Rushdie. In Italia il periodo di conflittualità arriva dopo, semplicemente perché l'immigrazione e la presenza di musulmani è più recente.