il manifesto - 03 Gennaio 2003
Keshishian, i miei zingari
Il fotografo bulgaro ma d'origine armena presenta le sue «immagini d'affezione»: un album dove sfilano operai, prigionieri e nomadi
VESA MATTEO PILUDU
Garo Keshishian è uno straordinario fotografo bulgaro ma d'origine armena, che si è servito della sua arte per documentare le realtà sociali più difficili e nascoste del suo paese: zingari, prigionieri, operai e armeni, reduci di un genocidio che la storia ha completamente dimenticato (sue opere sono state esposte presso Cà Zenobio, a Venezia nello scorso autunno). Per Garo, autore anche di ritratti e nudi femminili d'eccezione, la fotografia è uno strumento per esplorare il mondo.

Quando hai deciso di diventare fotografo?

Ho scattato la mia prima foto quando avevo 27 anni. Naturalmente non è successo per caso. Fino a quel momento avevo lavorato come ingegnere per un'industria siderurgica, ma questo non mi dava alcuna soddisfazione professionale! Da anni cercavo qualcosa di diverso, ma non sapevo cosa. Un giorno ho visto la foto di un mio amico che mostrava un paesaggio marino. Quell'immagine ha completamente cambiato la mia vita.

E fra le tue prime foto ci sono gli operai....

Le foto dei lavoratori sono state realizzate nella fonderia dove lavoravo. Ero il loro supervisore e questo mi permetteva di scattare foto degli operai nelle loro naturali condizioni di lavoro, senza pose artificiali. Queste immagini contraddicono la visione degli operai ufficiale del «realismo socialista» perché gli scatti hanno «realismo» senza aggettivi di sorta. Ciononostante gli sguardi di questa gente non mostrano solo orgoglio ma anche eroismo. Noi, davanti e dietro la macchina, sappiamo la verità.

Hai spesso documentato realtà sociali che il potere tende a nascondere. Hai sofferto forme dirette o indirette di censura?

In genere, tutti gli artisti al tempo del totalitarismo dovevano essere membri delle unioni artistiche ufficiali. Tutti i fotografi che conoscevo a quel tempo lavoravano seguendo la stessa linea, il loro mestiere era finalizzato a sottolineare gli aspetti positivi di un sistema che in realtà opprimeva l'ispirazione artistica e il pensiero di un'intera nazione e li canalizzava verso un'unica direzione. Siccome io non appartenevo a nessuna unione e cercavo di essere libero di produrre quello che volevo, naturalmente non riuscivo a esibire le mie opere. Durante questi anni facevo le fotografie «alle spalle» degli istruttori di partito della fabbrica dove lavoravo e sapevo che mi esponevo a grossi rischi. Allo stesso tempo, per sopravvivere come fotografo, ero costretto a scattare anche le foto ufficiali che mi richiedevano. Ma allo stesso tempo volevo sviluppare un lavoro sincero, che mostrasse la realtà delle cose. Non sono stato una vittima della dottrina ufficiale perché non ho mostrato queste foto in Bulgaria. Ho mandato i miei lavori in varie mostre fuori dal paese, ho guadagnato riconoscimenti al'estero ma ho continuato a essere sconosciuto in patria per più di 6 o 7 anni, dal 1981 al 1987.

Chi sono gli armeni dei tuoi ritratti? I loro visi sembrano raccontare lunghe storie...

Gli armeni che ritraggo nelle foto sono miei amici di Varna. Li ho selezionati a caso. Non sono persone che spiccano, per le loro vesti o altro, fra la comunità armena. Per me era importante mostrare gente che condivide con me gli stessi tratti ereditari di personalità e lo stesso destino. I loro visi dicono molto perché le facce umane esprimono una condizione. E più lunga è la strada percorsa, più sono le cose che un viso può raccontarti. La comunità armena è arrivata in Bulgaria in due momenti. Il primo è stato nel medioevo, quando gli armeni fuggirono dalle persecuzioni religiose. Questi primi armeni si sono mescolati con la gente locale. La seconda ondata, quando la mia famiglia arrivò in Bulgaria, è stata dopo l'orribile genocidio degli armeni che il governo turco ha compiuto in Armenia occidentale nel 1915.

Perché ami fotografare gli zingari?

Ho scattato foto di zingari per molti anni, altro popolo che ben conosce le strade della storia. È un gruppo marginale, che non è cambiato durante i secoli e ha preservato i suoi valori e difetti, incurante dei paesi ove migravano e delle collisioni globali, politiche e militari. Credo che sia il popolo più fotogenico al mondo. Accettano il fotografo apertamente e con tutto il cuore e si divertono. Durante il regime comunista, gli zingari erano più chiusi nelle comunità e non facevano notizia. Hanno un temperamento bollente e la loro passionalità prevale su tutte le buone ragioni. Hanno sempre molti bambini e la sopravvivenza fisica è molto rilevante. Tuttavia, se tutti gli zingari in passato erano poveri, ora ce ne sono anche di ricchi, ma la maggiornza vive in condizioni di miseria da spaccare il cuore. A causa del generale sottosviluppo si sono trasformati in un gruppo che campa solo con mezzi illegali. Purtroppo non vedo prospettive favorevoli per il miglioramento delle loro condizioni.

Hai immortalato anche soldati ai lavori forzati. Uno di questi ha inciso tatuaggio in italiano...

I soldati delle foto sono anch'essi zingari. Sono stati imprigionati a causa di qualche crimine commesso servendo l'esercito. Hanno lavorato per la costruzione dei nuovi dipartimenti della fabbrica dove lavoravo e ho realizzato queste foto in quel periodo. Uno di loro è un ragazzo con un tatuaggio in italiano: «Dio perdona io no». Non ha mai saputo che significa la frase. Era il titolo di un western italiano e il ragazzo voleva identificarsi col protagonista. Dopo le foto, come spesso accade, si è trasformato in un simbolo di qualcos'altro.

Tra i tuoi scatti, ci sono quelli americani... In una foto, dei bambini neri sono seduti sul cofano di una macchina. Cosa ci facevano lassù?

È un'intera famiglia, a parte la mamma. Sono arrampicati sulla macchina per meglio vedere una festa di strada a Huston. C'era tanta gente ed ero in cerca di soggetti a caso. Ma la foto trascende questa situazione. La fotografia fa pensare a più cose, oltre alla superficie che percepisci al primo sguardo.

Anche i tuoi nudi femminili sono bellissimi. Come hai ottenuto la complicità con le modelle?

Sono molto felice che apprezzi le mie foto di nudi. Naturalmente è impossibile lavorare senza uno scambio emotivo fra le modelle ed il fotografo. Oggi sono più importanti le modelle dei fotografi. Come ho conquistato la loro fiducia? Forse sono loro che ti potrebbero rispondere meglio!