il manifesto - 14 Novembre 2002
Migranti del Mediterraneo, viaggio nell'isola dei senza nome
Un filo spinato intorno al mare
Tempeste Contro il trionfalismo della «sanatoria» targata Bossi-Fini, il racconto in presa diretta dal centro di permanenza di Lampedusa. Un limbo senza statuto
Dietro le impronte Africani, magrebini, molti giacciono in fondo al mare. Per chi si salva, schedature e sbarre. Parlano le donne del gruppo contro i cimiteri marini

DANIELA PADOAN
Qualche giorno fa, a Milano, il gruppo «Donne contro i cimiteri marini di stato» ha dato vita a un piccolo evento - ripetibile ovunque, quasi come un format - per dire cos'è un Centro di Permanenza Temporanea per clandestini in via di espulsione e cos'è un'isola dove, in mezzo ai turisti, sbarcano e vengono ingabbiati uomini e donne che passano davanti a tutti invisibili come fantasmi. Un piccolo evento che però lascia un segno in chi vi assiste e l'evidenza di quanto le donne stiano portando di nuovo in politica. Senza armamentario ideologico né statistiche, prive dell'istituzionalizzazione data dalla «scienza» che si occupa di dati e di flussi, Federica, Gilda e Ilaria sono andate a Lampedusa, in agosto. Tutte e tre fanno da tempo lavoro politico sui CPT, però non hanno nessuna associazione, nessuno partito o istituzione a coprirle. Sono andate utilizzando il tempo delle vacanze, e dunque libere da ogni vincolo. Per vedere, per capire. Volevano entrare, e per farlo hanno chiesto sostegno a un'altra donna, una parlamentare, Graziella Mascia, senza la quale sarebbe stato impossibile varcare i cancelli del centro. Il racconto che ne fanno - supportato dalle fotografie scattate da Gilda e da due video girati da Enrico Montalbano - non ha nulla di convenzionale, costituito com'è dalle parole non mediate di donne che hanno la capacità di fare politica coniugando intelligenza del mondo e sentimenti.

Il video iniziale mostra una sequenza di fotogrammi che dapprima indugiano sul cielo, sulla libertà delle nuvole. Poi lo sguardo si posa sul dentro: siamo al centro di permanenza temporanea per clandestini di San Benedetto. Uomini. Africani, magrebini. Poliziotti. Mani che prendono le impronte di altre mani. Schedature. Profili per foto segnaletiche. Una mano dalla pelle scura con sopra scritto a pennarello un numero: il 15. Volti scarni, increduli, rassegnati, smarriti. Uomini perquisiti. Uomini distesi su materassini sottili, disposti l'uno a ridosso dell'altro sul pavimento, corpi abbandonati al sonno. Uomini dietro le sbarre, prigionieri, domande mute sui volti. Sono i clandestini, presi - temporaneamente - dalla polizia. Trattenuti anche per trenta giorni in centri che non hanno più nessuno statuto legale.

Gilda rende con umorismo l'impossibilità di farsi dare una definizione del centro di Lampedusa, tra eufemismi, lapsus e paradossi: il sindaco in carica all'epoca della sua costruzione parla di «centro di trasferenza»; il parroco di Lampedusa, che è anche direttore spirituale del centro, lo chiama «un albergo dove vengono serviti cibi da ristorante». Per il maresciallo della Guardia di Finanza il centro «non è un carcere ma di fatto è un carcere». «Il luogo dove li sto portando è un Lager con l'aria condizionata» dice. Solo che l'aria condizionata non c'è.

Farsi sguardo e portare fuori ciò che si è visto avendolo fatto agire dentro di sé; questa la scommessa politica. «Sono sbarcata all'aeroporto di Lampedusa con la pretesa di capire l'identità di questo posto - racconta Ilaria - con l'idea di ordinare le cose che già sapevo, di capire cosa era legittimo e cosa no, ma mi sono accorta che in realtà volevo tutelarmi dalle cose che stavo vedendo e che mi facevano male. Persone sotto il sole, latrine intasate, filo spinato. Abbassavo lo sguardo davanti agli occhi delle persone chiuse là dentro, perché ero in imbarazzo. E allora i miei occhi cercavano gli indicatori che dicessero che quello era un CPT, cercavo gli interpreti. Quando ho smesso di chiedermi cosa fosse, è successo quello che doveva succedere: sono stata percorsa dalla paura». Poi il racconto dello sbarco a cui tutte e tre hanno assistito. «Voglio parlare del colletto bianco di un ragazzo che stava sulla barchetta scortata dalla Guardia di Finanza. Il ragazzo si è messo a posto il colletto con un sorriso, ma quello che gli è successo poi era del tutto dissonante da quel suo gesto. La Guardia di Finanza, con i manganelli, lo ha fatto scendere, sdraiare. Attorno i turisti. Non c'era acqua, non c'era un'ambulanza, nulla che facesse pensare a un'operazione di pronto soccorso. Gli hanno tolto le scarpe, la cintura. Lui e tutti gli altri sono stati messi in fila per tre, li hanno fatti camminare scegliendo la strada più lunga, perché non era bello farli passare per la via principale». Durante i giorni passati a Lampedusa, Ilaria, Gilda e Federica hanno cercato di parlare con i turisti, con gli abitanti dell'isola, con i gestori del centro. «Di solito, davanti a un registratore la gente si contiene - prosegue Ilaria - e invece il registratore non censurava nulla. Parlavano di razza. Razza tunisina. Razza marocchina. L'ex sindaco, nella hall del suo albergo, mi ha detto: `ci sono sicuramente morti in mare, il mare è anche un cimitero, ma i pesci fanno piazza pulita'. Ero colpita, stupita e anche affranta da questo cinismo. Sono andata a leggermi i verbali di tutte le sedute comunali. Nel `96 è nato il `problema immigrazione' a Lampedusa. C'erano dei tunisini (li chiamano sempre così) che scorrazzavano liberamente per l'isola. Allora hanno creato una gabbia dove metterli, ma non era la soluzione ideale, era troppo visibile. Hanno individuato un casolare al centro di Lampedusa, ma c'erano i cani randagi e bisognava decidere se dare ospitalità in quel centro ai cani o ai `tunisini'. Hanno vinto i cani. Allora hanno pensato di usare i corridoni, le strutture utilizzate durante la II guerra mondiale come luoghi di confino, ma c'era un progetto per un museo. Restavano due opzioni: l'isola Lampione, vicino a Lampedusa, o l'attuale soluzione, una caserma dei carabinieri in mezzo all'aeroporto. La cosa che più mi ha colpito, però, è che il problema dell'immigrazione a Lampedusa è legato alla pesca. Tutti coloro ai quali abbiamo chiesto un commento, si sono lamentati per il fatto che le barche dei clandestini vengono lasciate con i motori accesi, a inquinare l'acqua; poi le barche affondano e rompono le reti. Sono andata via da Lampedusa con un mutamento nel mio modo di approcciarmi alle cose: per me non era più così importante capire cosa fosse quel posto, ma perché la gente avesse fatto una rimozione totale sul senso di vivere a due metri dal filo spinato».

L'incontro prosegue con la proiezione del secondo video di Enrico Montalbano, in cui Massimo Giannetti intervista sei degli undici sopravvissuti al naufragio di Porto Empedocle, avvenuto il 7 marzo di quest'anno. Non più fantasmi, ma individui con una storia, una fisionomia; non più sagome indistinte racchiudibili nella parola clandestino, profugo, naufrago, ma Ismail, Bright, Moses, Denis, Alex, Francis. Tutti sudanesi, eccetto Alex che viene dalla Liberia. Francis è fuggito con i due fratelli più piccoli, morti nel naufragio. Denis, studente al Politecnico, è partito con quattro fratelli, tutti annegati. Bright, imbianchino, una moglie e quattro figli a casa ad aspettarlo, nel naufragio ha perso un fratello e un cugino.

Le loro testimonianze formano un'unica partitura corale. Il viaggio inizia il 28 febbraio, alle due di notte. Tremila dollari per la traversata dalla Turchia all'Italia. Sono settantuno, tra cui quattro donne. Il secondo giorno di navigazione un'avaria, il motore si ferma, la nave è in balia di un vento furioso. Provano a riavviare il motore ma non c'è nulla da fare, così staccano le assi dalla cabina della barca e proseguono il viaggio remando. I viveri e l'acqua finiscono. Un uomo si getta in mare. «Era molto triste, e depresso, e affamato; per questo si è buttato in mare. Lui voleva morire. Eravamo tutti terrorizzati. Molti volevano buttarsi in mare per farla finita». Il fratello cerca di salvarlo ma le onde sono troppo grosse. Annegano tutti e due. Passano cinque giorni. «Piangevamo. Dovevamo remare, remare, remare, ma non sapevamo dove stavamo andando». L'ottavo giorno avvistano un peschereccio; è l'Elide, che lancia l'SOS alla Polizia marittima e alla Marina Militare, presente a qualche miglio dalla zona con una proprio pattugliatore, il Cassiopea. «Ci trainavano velocemente con una fune, e l'acqua entrava nella barca, tantissima acqua. Abbiamo iniziato a gridare. Il mare era agitato. Dopo due ore è arrivata la nave della Marina. Stavamo affondando. Gridavamo. A un certo punto il peschereccio si è fermato. Abbiamo chiesto che ci prendessero a bordo ma ci hanno fatto segno di no». Dopo una ventina di minuti in cui si svolge una fitta comunicazione tra il peschereccio e la nave della Marina, l'Elide riparte a gran velocità. La corda è tesissima e la barca dei naufraghi, ormai allagata, affonda. «Eravamo convinti che non saremmo sopravvissuti. Ho afferrato un bidone e me lo sono stretto al petto». «Quando sono andato giù mi sono tolto i vestiti e ho pregato Dio perché mi salvasse, ho cantato una canzone. Poi, mentre nuotavamo verso la nave della Marina, abbiamo visto una scialuppa. Li abbiamo chiamati ma loro ci hanno superato. Poi sono tornati e ci hanno preso, prima me e poi mio fratello. Dentro la scialuppa c'era un piccolo vano e ci hanno chiuso a chiave là dentro. Non vedevamo fuori, ma sentivamo le grida degli altri. Loro gridavano, ma non li hanno presi. In acqua c'erano molte persone, ma sulla scialuppa c'eravamo solo io e mio fratello. In quei quindici, venti minuti dovevano decidere di salvarci, ma non è stato fatto niente».

Persone come Denis, Bright, Alex, Francis, Moses, Ismail, ridotte al numero che viene loro scritto su una mano, sono quelle di cui ci parlano Gilda, Federica e Ilaria. Accostare l'immagine appena vista di Moses, che si alza durante l'intervista a cantare la preghiera che ha rivolto a Gesù tra i flutti, rende ancora più stranianti le parole con cui subito dopo Federica racconta del cimitero di Lampedusa, delle croci senza nome sotto cui sono seppelliti corpi che il responsabile spirituale del centro suppone essere di musulmani, a dire quel nulla di conoscenza che resta a offendere anche nella morte.

Secondo un calcolo approssimativo per difetto, che tiene conto solo delle stime ufficiali, sarebbero più di mille gli stranieri morti al largo delle nostre coste dal 1997, quando la motovedetta Sibilla speronò la Kater I Rades. Il Mediterraneo si sta trasformando in un cimitero marino, eppure la presenza di uomini, donne, bambini che in qualche modo sono riusciti a sbarcare affrontando un viaggio rischioso, a volte scampando a un naufragio, viene rappresentata dai media come un aleggiare di fantasmi senza volto che non ci chiama in causa, rubricata com'è nel fenomeno, nel problema, nella questione immigrazione, senza mai interrogare e lasciarsi interrogare dalle persone in carne e ossa. Vittime anche noi di quel «malsviluppo» - come lo chiama Vandana Shiva - che sta distruggendo, assieme alle risorse materiali e culturali, la radice stessa del nostro sentire. Persino le elaborazioni politiche della sinistra, per quanto irrinunciabili, rischiano a volte di tenersi in un gioco in cui l'altro che arriva è privo di una propria esistenza simbolica. Persona da contrapporsi a «non persona», migrante da contrapporsi a immigrato; figura teorica che non si sostanzia se non nei rapporti privati, restando materia di studio, di rivendicazione, di legge. Però qualche cosa di nuovo accade, e accade con il segno della differenza femminile, a dire che a volte bisogna esserci per togliersi, fare spazio all'altro non per dare voce, ma perché quella voce ci possa parlare. Quanto questo possa spostare anche i linguaggi della politica istituzionale, lo dimostra il modo in cui Graziella Mascia sta al racconto, mettendosi in gioco per intero nel riferire del suo viaggio a Lampedusa e del suo lavoro di ostruzionismo alla Bossi-Fini in Parlamento.