il manifesto - 16 Ottobre 2002
Da Ellis Island ai campi profughi
Immigrati di ieri e di oggi: al teatro Massimo il debutto nell'opera del compositore siciliano Giovanni Sollima
GIUSEPPINA ROSSI
PALERMO
«Finalmente una notte abiamo arrivati quasi alla statua e che si vede una bellezza, le navi chi va chi viene una veduta mai vista (...) palazi che facevani impressione a guardarli, macchini, villi che pareva veramente il paradiso che noi non abiamo ancora visto». Pare di vederla New York ai primi del secolo con gli occhi degli emigranti che arrivavano ammucchiati a centinaia nelle terze classi dei transatlantici, mentre ascoltiamo il brano tratto da La Spartenza di Tommaso Bordonaro - libro autobiografico di un contadino della Sicilia, scritto in un italiano incerto ma di una forza e di una poesia da lasciare stupiti - che funge da prologo ad Ellis Island, debutto nell'opera del compositore siciliano Giovanni Sollima commissionata dal Teatro Massimo di Palermo e messa in scena in prima mondiale. Ellis Island - dal nome dell'isolotto di fronte a Manhattan che dal 1892 al 1954 fu la sede del Centro Immigrazione - parla della speranza che muove milioni di uomini verso una vita migliore, della delusione, dello spaesamento, della perdita di identità e memoria che segna per sempre la vita di chi - ieri come oggi - è costretto a emigrare. Tra storia - la nostra storia - e attualità, tra cronaca e ricerca d'archivio lo scrittore e giornalista Roberto Alajmo ha costruito il libretto, accumulando testimonianze, documenti, voci, suoni, nomi lasciandoli vivere come frammenti, schegge di esistenze, rinunciando alla tentazione di raccontare una storia, di costruire una trama, di scolpire personaggi a tutto tondo, preferendo una narrazione corale dove anche i solisti che impersonano il funzionario, il medico, Alesi (i tenori Martin Mühle e John Daniecki) o la cantante pop Elisa nei panni di Felicita Sapegno, non raccontano la loro storia ma danno voce alla collettività.

Nel primo atto, Ellis Island, immaginata da regista Marco Baliani e dallo scenografo Carlo Sala come un'enorme, opprimente gabbia metallica, è il simbolo dell'attesa, dell'angoscia, dell'incertezza, degli interrogatori (le famose 29 domande da superare per accedere al sogno del Nuovo Mondo), delle visite mediche (ossessivo l'elenco ripetuto e ripetuto delle malattie che rimandavano indietro migliaia di emigranti), è il trionfo della burocrazia che annulla l'individuo; all'inizio del secondo atto si perde all'improvviso ogni riferimento spazio-temporale, non siamo più negli Stati uniti, l'umanità coperta di stracci che ritroviamo sulla scena è identica, ma non risponde più ai nomi di Amelio Antonio, Betta Natale o Caruso Maria, siamo in un campo profughi, si chiamano Rebwar, Samina, Parviz, sono profughi curdi, iracheni, e quant'altri le guerre, la fame, la disperazione portano oggi sulle nostre coste con le stesse angosce, le stesse paure lo stesso senso di annullamento, gli stessi umilianti interrogatori.

Per questo «finto reportage musicale», come gli autori stessi hanno definito Ellis Island, Sollima ha scelto un linguaggio composito, eclettico che pur non ricercando l'originalità a tutti i costi, sposa con coraggio la musica etnica al rock, i timbri e la dinamica della vocalità lirica con la canzone pop, il musical e il melodramma, senza dimenticare l'esperienza del minimalismo americano (Steve Reich, Philip Glass). Il risultato è un'opera-musical nel suo complesso interessante, per certi versi sorprendente ma fortemente disuguale. Molto bello ma a sprazzi il primo atto, soprattutto il duetto Felicita (Elisa)/Alesi (Mühle) sulle parole scritte da Emma Lazarus nel 1883 sulla Statua della libertà (Give me your tired,/your poor, your huddled masses), incontro felice e inedito tra voci diversissime e il lungo assolo per violoncello-midi, suonato dallo stesso Sollima - che compare in scena calato dall'alto e rimane sospeso a mezz'aria - che regala uno dei momenti di più autentica suggestione dell'intera opera.

Dopo un 1° atto in definitiva troppo lungo, il 2° e ultimo era assai più efficace ed equilibrato. Le testimonianze dei profughi strappate dalla cronaca dei quotidiani, la voce registrata che racconta fredda e distaccata la chiusura di Ellis Island e delle frontiere negli anni '50, la bellissima poesia della poetessa curda Hevi Dilara, per la voce di Elisa che canta con tenero struggimento, la nostalgia, il dolore della distanza, il bel duetto tra la cantante pop e Martin Mühle (Felicita e Alesi del 1° atto) riproposto su una poesia del 1938 di William Carlos Williams davano ritmo, spessore narrativo e immediatezza emotiva.

Bravissimi e applauditi i solisti, i tenori Mühle e Daniecki, il baritono Ercole Maria Bertolini, perfetta Elisa - per nulla impacciata al suo debutto sulla scena lirica - e la voce recitante di Giorgio Li Bassi (Tommaso Bordonaro); convincente la prova dell'orchestra diretta da Todd Reynolds, del coro e delle voci bianche del Teatro Massimo. Calorosissimo, infine, il lungo e affettuoso applauso del pubblico per Giovanni Sollima.