il manifesto - 28 Settembre 2002
Le Tigri asiatiche migranti
La ricca Malaysia adotta una politica «modello italiano» sull'immigrazione. E centinaia di migliaia di lavoratori filippini e indonesiani vengono detenuti ed espulsi, in condizioni subumane
VITTORIO LONGHI
La politica malese d'intolleranza verso l'immigrazione clandestina ha scatenato una crisi diplomatica senza precedenti con Filippine e Indonesia. Una crisi che si aggrava di giorno in giorno, a ogni nuova notizia di maltrattamento dei migranti provenienti dai due paesi e rinchiusi nei centri di detenzione malesi in attesa di rimpatrio. Il governo di Kuala Lumpur sta cercando di respingere e confutare accuse pesanti e sempre più frequenti di violenza e sfruttamento di filippini e indonesiani, ma l'evidenza dei fatti e le manifestazioni di piazza a Jakarta e Manila, dove è stata simbolicamente bruciata la bandiera malese, ha costretto il premier Mohamad Mahathir a sospendere la deportazione in massa di centinaia di migliaia di irregolari, ordinata ad agosto. Mahathir ha dovuto acconsentire anche alle richieste di ispezione fatte dai due governi nei centri della regione del Sabah. La settimana scorsa, infatti, una delegazione filippina, guidata dalla presidente Gloria Macapagal Arroyo, ha visitato i tre campi di detenzione, confermando le denunce sulle condizioni e sugli incidenti avvenuti finora. Sono dodici i figli di clandestini morti nel mese passato per le malattie generate dalle condizioni igieniche e sanitarie a Sandakan e Menggatal.

Altri tre neonati, invece, non sono sopravvissuti al viaggio di rimpatrio verso Manila all'inizio di settembre e una nuova accusa, questa volta di stupro, è partita pochi giorni fa da una tredicenne filippina, contro una guardia carceraria malese. Quest'ultima violenza sarebbe venuta alla luce proprio durante l'ispezione nel Sabah, a Kota Kinabalu, destando molto clamore ma non certo sorpresa, dato che i media filippini continuano a raccontare storie di abusi simili subiti dalle donne appena espulse.

La presidente Arroyo ha scritto immediatamente al primo ministro malese affinché avvii un'inchiesta sulla vicenda: «Lo considero un oltraggio personale e verso tutto il popolo filippino - si legge nella lettera diffusa dai giornali - e sono certa che vorrà punirlo nel modo più severo». Le autorità malesi hanno promesso di indagare e condannare l'azione: «Anche se non si fosse trattato di violenza, la ragazza è minorenne e per la legge si tratta comunque di stupro - ha detto il capo della polizia di Sabah, Ramli Yusuf - un crimine che qui comporta fino a 14 anni di carcere».

Ai casi dei filippini si aggiungono quelli altrettanto gravi degli indonesiani, che costituiscono la maggior parte degli irregolari in attesa di espulsione. Anche il vice presidente indonesiano Hamzaz Haz ha visitato il centro di Nunukan, città portuale nella provincia del Kalimantan, confinante col Sabah, dove sono stati sistemati circa 22mila detenuti cacciati dalla Malesia. «Abbiamo commesso degli errori nella gestione dell'emigrazione - ha commentato diplomaticamente - ma dobbiamo approfittare di questo momento di crisi per introdurre nuove regole». Hamzaz ha annunciato che il governo ha già stanziato 100mila dollari di aiuti e ha predisposto un nuovo presidio medico nella zona.

Le organizzazioni umanitarie e i vari gruppi internazionali di volontariato hanno rivelato però che a Nunukan ci sono state circa 30 morti nell'ultimo mese, per dissenteria e altre malattie dovute alla mancanza di acqua potabile, cure sanitarie, medicine e cibo. «Dobbiamo comprare acqua anche solo per lavarci e paghiamo persino ogni volta che usiamo il bagno», ha detto un detenuto al quotidiano indonesiano Jakarta Post. Altra cosa difficile, poi, è ottenere il passaporto: «E' da più di un mese e mezzo che ho fatto la richiesta e ancora non ho avuto nessuna risposta», si è lamentato un altro. A Nunukan si raccontano anche storie di famiglie indonesiane che in Malesia avrebbero venduto i propri figli, per la fame e la disperazione.

Il governo malese ovviamente respinge ogni accusa e continua a sostenere che i propri centri di detenzione sono stati ispezionati e approvati dal personale delle Nazioni unite. L'agenzia Onu per i rifugiati, Acnur, ha però negato di aver anche solo visitato quei posti. Inoltre, Mahathir ha detto chiaramente che i trasferimenti riprenderanno dopo questo giro di ispezioni e che non intende cambiare di una virgola la nuova legge sull'immigrazione. Il suo popolo, infatti, avrebbe «sopportato il peso degli immigrati per decenni e ora la loro presenza non fa che aumentare il crimine», perciò devono andarsene. La Malesia è uno dei paesi che meglio rappresentano il forte e rapido sviluppo economico del sudest asiatico ed è da sempre una meta ideale per i sogni e le speranze dei vicini più poveri.

La nuova politica di tolleranza zero è partita all'inizio dell'anno e il primo agosto segnava solo l'ultima scadenza per la regolarizzazione o la partenza volontaria. Se da febbraio i clandestini espulsi sono circa 300mila, di cui solo 70mila filippini, nell'ultimo mese la cifra è stata ampiamente superata: ben 318mila rimpatri, in maggioranza di indonesiani. Solo dal Sabah, zona più facilmente raggiungibile dal sud delle Filippine, sono circa 80mila gli irregolari in attesa di tornare a casa. Ora, chi viene trovato senza visto sul passaporto e non può dimostrare di essere già in partenza, con tanto di biglietto per il proprio paese, viene detenuto e poi espulso o, se oppone resistenza, direttamente arrestato.

Secondo Amnesty International, «dare la caccia e allontanare le persone in questo modo, non è solamente disumano e degradante ma, secondo gli standard internazionali, è un trattamento che equivale alla tortura». La brusca interruzione del flusso migratorio raccoglie critiche anche dall'interno, però, anche se per ragioni puramente opportunistiche. Gli industriali malesi hanno contestato con forza la scelta di impoverire improvvisamente il Paese di manodopera a basso costo, destinata ai lavori più pesanti e rischiosi come nell'edilizia e in agricoltura, una scelta - dicono - che è sicuramente destinata a danneggiare l'intera economia.