il manifesto - 18 Settembre 2002
Sbarchi clandestini, l'Italia punta a Suez
L'Italia chiede aiuto all'Egitto per fermare le navi che transitano per il canale di Suez prima che arrivino in Sicilia. Se ne parla, anche se mai ufficialmente, da mesi, dai tempi del megasbarco di kurdi in Sicilia nel marzo scorso. Accusati di essere coinvolti nel traffico di migranti, le autorità turche, nella persona del direttore generale della sicurezza e capo del dipartimento stranieri, confini e immigrazione della Turchia, Mehmet Terzioglu, si difesero affermando che «contrariamente a quanto alcuni pensano in Italia la polizia turca sta facendo di tutto per fermare le ondate di clandestini. E abbiamo informazioni certe che le navi provenienti dallo Sri Lanka - almeno 15 al momento (29 marzo, ndr) - transitano per il canale di Suez». La notizia delle quindici navi non fu mai confermata, ma tanto bastò all'Italia per una mobilitazione immediata. Solo due settimane più tardi Berlusconi dichiarava che erano stati avviati contatti con l'Egitto per garantire «una presenza di controllo italiana nel canale» con il compito di «fermare le navi di clandestini». L'allora ministro dell'interno Claudio Scajola dava i numeri di sbarchi a crescita esponenziale, identificando i migranti di origine cingalese: «6500 i clandestini sbaracati in Italia nel primo trimestre del 2002. Questo eccezionale afflusso - spiegò l'ex ministro - è stato determinato dall'immigrazione illegale di cingalesi, più di 2000».

Così il 13 maggio, al Cairo, il sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano firmava un protocollo di intesa con il generale Salah Salama, del ministero dell'interno egiziano. In base all'intesa, a oggi non ancora ratificata, l'Egitto si impegna a un maggior controllo sul canale e a intensificare lo scambio di informazioni con le autorità italiane. L'Italia, si legge sempre nella bozza dell'accordo, potrà contribuire alla formazione del personale di polizia locale e potrà fornire il necessario aiuto per il rimpatrio dei clandestini nei paesi di origine. Insomma, puché le navi non arrivino in Sicilia, possiamo anche fare pagare ai contribuenti italiani il rimpatrio dei cingalesi.

Il problema è che gli egiziani non «collaborano». Il canale di Suez è una delle più importanti risorse economiche del paese, che è quello che accoglie la maggiore comunità di rifugiati sudanesi e che pertanto non ha alcuna intenzione di sobbarcarsi anche il problema dei cingalesi. L'Egitto, oltretutto, non esporta clandestini in Italia, ma si presenta essenzialmente come un punto di passaggio. Dal 1956, quando Nasser nazionalizzò il canale, ne gestisce il traffico, che rimane però aperto a vessilli di qualsiasi nazionalità. Certo, sostengono gli italiani, in base al trattato di Costantinopoli del 1888 sulla libera navigazione e alla convenzione Solas (Safety of life at sea) del 1974, le autorità egiziane dovebbero fermare le «carrette del mare», ossia le navi che presentano rischi per l'incolumità dei naviganti. Ma è evidente che, una volta fermate le navi, doverbbero scattare le procedure per le richieste di asilo politico e l'accoglienza in centri di permanenza che in Egitto non esistono. Tre navi provenienti dallo Sri Lanka hanno dato forfait prima di raggiungere le coste siciliane, se davvero lì erano dirette. In un caso le autorità cingalesi al Cairo si sono fatte carico del rimpatrio. Negli altri due, i migranti sono ancora «custoditi» nel carcere di Hughada, nota località balneare nel Mar Rosso, in attesa che qualcuno decida del loro fato.