il manifesto - 07 Settembre 2002
EUROPA
La fortezza si incrina?
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
Dall'interno delle stesse istituzioni europee è giunto ieri un alto là ai 15 e alla Commissione sul tema dell'immigrazione: un grido di allarme contro la loro politica a senso unico, punitivo. Luis Miguel Pariza Castaños, a nome del Comitato economico e sociale (Ces), ha voluto infatti proporre all'Europa che comanda un approccio meno ipocrita e populista. Si è trattato di un primo assaggio del seminario organizzato dal Ces per lunedì e martedì prossimi, un'occasione di confronto tra Bruxelles e ong dei 15 e dei paesi candidati sui temi dell'immigrazione e dell'integrazione. Castaños è partito da una richiesta di cambiamento linguistico: «un immigrato non è un illegale, è una persona che cerca una vita migliore e si può trovare in una situazione di irregolarità, anche perché in moltissimi casi mancano regole comuni»; e da un riesame delle relazioni di lavoro: «dobbiamo guardare alle politiche del lavoro, alla funzionalità dello sfruttamento degli immigrati irregolari». Il Ces chiede alla «Commissione e al Consiglio di riorientare i loro progetti normativi (..) Non ci piace il punto di vista di Siviglia (l'ultimo vertice europeo consacrato alla lotta all'immigrazione illegale, ndr), si sta incitando al timore, un timore che diventa l'ambiente naturale per lo sviluppo di attitudini razziste e xenofobe»; e accompagna la richiesta con tre proposte.

Si chiede in primo luogo una riforma dell'articolo 17 del Trattato della Ue, che riguarda la cittadinanza. Una riforma mirata a far diventare i cittadini di paesi terzi residenti di lunga durata, cioè da almeno 5 anni, «cittadini europei a tutti gli effetti», per «garantire loro non solamente i diritti economici e sociali ma anche quelli politici», in sostanza il primo passo per contare ed esistere al di fuori delle relazioni puramente di lavoro (non a caso la Lega Nord si è sempre fieramente opposta all'eventualità). Il Ces chiede poi un programma comunitario finalizzato a promuovere l'integrazione attiva degli immigranti; e infine una proposta pratica: un visto temporaneo di 6 mesi per chi viene a cercare lavoro nella Ue, un modo «per evitare situazioni di illegalità». Il sistema permetterebbe di superare l'ipocrisia dell'attuale procedura di entrata, che benedice solo chi arriva con un contratto di lavoro già in mano; «solo le grandi imprese possono permettersi di reclutare personale nei paesi di origine, mentre i numeri dimostrano che la maggior parte degli immigrati trova lavoro presso privati o nelle piccole aziende». Il permesso semestrale, allo studio nel Regno unito, venne applicato in Italia dal governo Amato ma poi la venuta del Cavaliere ne segnò la fine.

I capi di accusa contro la Ue non finiscono qui. I 15, oltre a preoccuparsi di rafforzare le frontiere, le espulsioni e i limiti al diritto d'asilo, rimangono colpevolmente nel vago al momento di definire norme comuni in materia di politica migratoria (hanno annunciato flussi e nuove condizioni di entrata ma poi non hanno deciso nemmeno quando approvare le direttive) o di lanciare i piani per l'integrazione, mentre manca pure una formalizzazione precisa dello statuto di residente di lunga durata.

Ritardi che fanno comodo. Sfruttando un vuoto legislativo che loro stessi determinano, i governi sembrano fare a gara per cambiare in senso restrittivo le loro legislazioni. Tra chi ha già approvato nuovi disegni di legge o chi lo sta per fare si contano 11 esecutivi su 15. Il cammino è quindi segnato: una volta indurite le norme a casa propria diverrà naturale rivedere al ribasso anche la casa legislativa comune ancora in costruzione. Speriamo che non sia troppo tardi perché le istituzioni Ue invertano la tendenza.