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il manifesto - 28 Luglio 2002 VISIONI pagina 14
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pag.14

Il mio cinema, piccole storie contro la guerra
CRISTINA PICCINO
ROMA
 
Cambio ai vertici di Stream In Francia Canal+ si ristruttura
 
CALIBRO 9
L'Oscar anticipato
 

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Passioni segrete nel dopoguerra
SILVANA SILVESTRI
 
Il ruggito di Leone
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TORELLA DI LOMBARDI (Avellino)
 
L'energia di Drodesera
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intervista

Il mio cinema, piccole storie contro la guerra
Incontro con Fariborz Kamkari, sguardo lucido della nuova generazione di cinema in Iran. Il suo film d'esordio, «Blank Tape», storia di una rifugiata kurda a Teheran, sarà alla prossima Mostra di Venezia. Intanto il regista è arrivato in Italia alla Cittadella del Corto con «Born to be soldiers», la guerra civile in Kurdistan
CRISTINA PICCINO
ROMA
Fariborz Kamkari ha trent'anni, è nato a Teheran dove vive e insieme ad altri registi, come Samira Makhmalbaf o Bahman Ghobadi è tra gli sguardi di una possibile nuova onda iraniana, quella cresciuta con le immagini di Abbas Kiarostami o Mohsen Makhmalbaf e soprattutto con un'idea di un cinema che sia vitale, arma di presente e memoria ma anche luogo di libertà, di ricerca, di invenzione. Non a caso se gli chiedi quali sono i suoi film preferiti ti parla di Rossellini o del neorealismo italiano, di un racconto della realtà in cui documento e fiction si mescolano, producono poesia e insieme consapevolezza. Anche se poi Kamkari ha come primo amore il teatro, studi all'università di Teheran, numerose regie, scrittura. E poi i cortometraggi, le sceneggiature per la tv o per altri registi - tra gli altri proprio Ghobadi nel sorprendente Il tempo dei cavalli ubriachi - un pungente frammento di quella realtà che nella visione occidentale è sempre più soffocata dagli stereotipi giustificazione a senso unico di aggressioni o indifferenza. Del resto è anche questa una caratteristica del cinema di quei giovani che provano a costruire una doppia consapevolezza, un racconto al resto del mondo che vuole esprimere la singolarità e una diversa coscienza nel proprio paese rispetto a censure o rimozioni. Kamkari nei giorni della rivoluzione khomenista era poco più che un ragazzino. «Non ricordo molto di allora, mi è rimasta la sensazione di una situazione molto, molto difficile specie nei mesi dopo la rivoluzione. C'era la guerra con l'Iraq, ogni notte cadevano le bombe» dice oggi. E anche da lì, da un passato mai formalizzato e sempre in stretto cortocircuito con l'attualità arrivano le loro storie. Un esempio? La guerra in Kurdistan. Nel parlava Lavagne di Samira, ne parlava Il tempo dei cavalli ubriachi , ne parla anche il lungometraggio d'esordio di Kamkari, Blank Tape, che sarà alla prossima mostra di Venezia nella sezione dei Nuovi Territori, la storia di una rifugiata curda a Teheran e degli uomini chiave nella sua vita. «Anche se non è un film d'amore ma è soprattutto un film politico perché esplora le relazioni tra i curdi e la nostra società». Intanto però Kamkari è già arrivato in Italia, ospite a Trevignano della Cittadella del Corto, il festival che da otto anni lavora sulle tendenze del formato breve (si chiude domani) con Born to be soldier, di nuovo il Kurdistan in piena guerra civile. Protagonisti sono due ragazzini, due cuginetti di undici e quattordici anni, nemici per forza perché mercenari in fazioni diverse. Uno imprigiona l'altro che gli chiede la libertà. Per un giorno dimenticano la guerra e tornano ragazzini, poi però la realtà ne cancella ongi ricordo di infanzia... Documento e fiction (i ragazzini erano veri piccoli soldati), in Iran non ha avuto il permesso di essere proiettato in sala cosa che rende Kamkari molto triste. Dice: «non si può parlare di quella guerra in cui sono coinvolti Turchia, Iraq e Siria. Non si deve mostrarla, meglio fare finta di niente. E in più il mio corto è contro la guerra...».

Come sei arrivato a «Born to be soldier»?

All'epoca lavoravo per un'associazione umanitaria in Kurdistan durante la guerra civile. Un giorno ho incontrato i due cugini del film, erano mercenari e uno dei due aveva arrestato l'altro. Accade spesso lì, la guerra è la sola possibilità di guadagnare un po' di soldi per vivere, la gente non ha nulla, non sa come mangiare, per questo anche i fratelli posso diventare nemici. Così gli ho dato venti dollari per lasciare i loro gruppi dove erano pagati, rischiando la vita, cinque dollari al giorno. Sono venuti con me e abbiamo girato il film. In guerra erano nemici, nella vita di tutti i giorni erano due ragazzini con ancora la voglia di esserlo anche se sono stati costretti a vivere cose terribili. In Kurdistan ho visto la disperazione, la miseria, la violenza è inevitabile, arriva da tutte le parti. La gente, come dicevo, non ha nulla, non possono neanche coltivare la terra perché è tutto pieno di mine. E' un terribile paradosso ma gli resta solo la guerra per vivere.

E' per questo che il Kuridstan è così presente nei tuoi film?

Il cinema può raccontare le vittime e aiutarle. L'occidente non ha fatto molto in questa situazione, anzi sembra piuttosto indifferente. Il cinema può mostrare questa realtà all'occidente, non ai politici ma alle persone che non ne sanno nulla e che magari pian piano possono forzare i loro governi a trovare una soluzione. Non credo molto alla politica, penso piuttosto che se si riesce a creare una consapevolezza collettiva rispetto a quanto accade nel mondo si possa arrivare più lontano che con le promesse dei politici. Perchè questi problemi riguardano tutti. E' come l'11 setttembre: non è stata una tragedia solo per New York, ha colpito il mondo intero.

A proposito, l'11 settembre è stato usato anche per rafforzare reciproci pregiudizi...

Penso che l'occidente non abbia capito i principali problemi di coloro che definisce i «suoi nemici». Ha dato loro bombe quando hanno bisogno di aiuti, cibo, medicine. Tanti che dicono di combattere per Bin Laden neanche ci credono nel terrorismo, sono come quei ragazzini curdi, hanno fame, devono nutrire le famiglie, è la tragedia di questa gente che muore in guerra. Penso però che ci sia anche un'enorme ignoranza. Noi sappiamo tutto degli Stati uniti, loro molto poco di noi. Il cinema in questo senso può cambiare le cose, aiutare una conoscenza che sia reciproca rendendo questa parte del mondo, la gente che ci vive più familiare, raccontando il quotidiano, le storie personali e non solo le cronache piene di luoghi comuni.

Cosa significa fare cinema oggi in Iran? Ci sono ancora molte difficoltà?

Soprattutto è un problema economico. Non abbiamo grossi aiuti, la televisione non sostiene il cinema. E' vero che girare un film in Iran costa pochissimo e per noi è stato fondamentale il digitale, aiuta i registi come me a mettere insieme i loro film senza aspettare troppo tempo. Dal punto di vista del controllo «politico», della censura le cose vanno molto meglio. Il presidente Kathami stra cercando di cambiare la situazione, non è facile ma ci sono stati molti miglioramenti.

E qual è la condizione dei rifugiati curdi in Iran?

Vivono molto male, sono poveri, emarginati anche se rispetto alla Turchia stanno già meglio, almeno possono parlare la loro lingua cosa che invece là gli è proibita. E' un problema culturale che si presenta in tutte le relazioni fra una società e le minoranze. Ed è difficile da superare. Per me parlarne, come ho fatto nel mio film, Blank Tape, è sempre un modo per capire meglio la realtà in cui vivo. Il cinema è un po' lo specchio di un paese , in Iran ci aiuta a scoprire o a conoscere in modo profondo la nostra cultura e le nostre contraddizioni. Ed è importante mantenere una specificità perché i problemi sono diversi ovunque, le culture sono diverse una dall'altra. E un po' il contrario di quanto fa un certo cinema americano che vuole essere uguale per tutti.


 
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