il manifesto - 02 Luglio 2002
Iohan, processo ai fantasmi
Prima udienza a Siracusa del dibattimento per il naufragio di Natale del 1996, costato la vita a 283 immigrati. Ma in aula non è presente neanche uno degli imputati, tutti a piede libero ormai da anni. Aggravata l'accusa da omicidio colposo a omicidio plurimo volontario
TERESA CAMPAGNA
PALERMO
Omicidio volontario plurimo e organizzazione di immigrazione clandestina. Il Tribunale di Siracusa ha accolto la richiesta del procuratore capo Roberto Campisi di riformulare il capo di imputazione nei confronti dei 13 imputati del processo sul naufragio avvenuto nel dicembre del `96 al largo di Portopalo di Capo Passero (Sr). La notte di natale di sei anni fa in quelle acque morirono annegati 283 immigrati, nel silenzio e nell'indifferenza generali. Il processo ripartirà, quindi, da zero, con la nuova imputazione davanti alla Corte d'assise. Il Tribunale, infatti, dopo avere accolto la richiesta, si è dichiarato incompetente e ha inviato gli atti alla procura, che dovrà presentare al gip la nuova richiesta di rinvio a giudizio. Gli imputati, tutti latitanti, finora erano stati accusati di omicidio colposo plurimo, ma secondo il procuratore Campisi i migranti, provenienti da Pakistan, India e Sri Lanka, furono dolosamente abbandonati. Vale a dire che i responsabili del naufragio, e soprattutto il comandante dell'imbarcazione Youssef El Hallal, cittadino libanese, erano consapevoli che la decisione di trasbordare il loro carico umano a bordo di un peschereccio maltese per raggiungere la costa, avrebbe potuto causarne la morte, così come in realtà avvenne. Gli immigrati che si trovavano a bordo della nave Iohan avrebbero dovuto sbarcare sulla costa siciliana attraverso il peschereccio, che doveva fare la spola fra la nave e la terra ferma. Nel primo viaggio il natante venne caricato all'inverosimile, gli extracomunitari vennero stipati nelle stive e nei locali adibiti al trasporto del pesce sopracoperta, chiusi, senza possibilità di scampo. Il peschereccio cominciò subito ad imbarcare acqua, e tornò indietro verso la Iohan, ma un'onda terribile squarciò l'imbarcazione, che affondò con tutti quegli uomini dentro. Soltanto qualcuno si poté salvare, mentre quelli all'interno delle stive morirono tutti. La Iohan, con il resto dei passeggeri, scappò alla volta della Grecia. E proprio in Grecia i superstiti cominciarono a raccontare la loro drammatica storia, senza però essere creduti. Vennero arrestati e, quindi, rimpatriati.

Quella che è stata definita la più grave sciagura navale nel Mediterraneo dopo la seconda guerra mondiale è rimasta per anni avvolta nella leggenda. Il manifesto per anni, unico giornale a parlare del naufragio, ha raccolto le testimonianze dei superstiti in Grecia e denunciato la tragedia, della quale non si è interessata alcuna autorità nazionale o internazionale. Lo scorso anno la Repubblica ha pubblicato le foto del disastro dopo avere individuato il relitto e, quindi, localizzato il luogo del naufragio, in acque internazionali a diciannove miglia da Portopalo di Capo Passero, nell'estremo sud della Sicilia.

Il silenzio sul naufragio è stato mantenuto per anni, anche quando, per un caso, è stata intercettata la Iohan, nel `98, al largo delle coste calabresi. Il nome della nave, posta sotto sequestro giudiziario nel porto di Reggio Calabria, era stato occultato, riverniciato, ma all'interno dell'imbarcazione si possono ancora leggere le scritte dei sopravvissuti. Messaggi di disperazione, piccoli frammenti scritti con il carboncino, incisi sul legno della stiva da uomini terrorizzati, ignari di quello che il destino avrebbe riservato loro, che documentano ciò che era accaduto la notte del 25 dicembre del 1996.

In questi anni nel tratto di mare al largo di Siracusa è successo l'inverosimile, con i pescatori che tiravano su le reti con i pesci e i resti dei corpi dei naufraghi che immediatamente restituivano al mare, facendo finta di niente, probabilmente per evitare noie con le autorità. Ma a squarciare il velo di omertà alla fine è stato proprio un pescatore, che ha raccolto la carta d'identità plastificata di Anpalagan Ganeshu, un ragazzo di 17 anni di Chawchsceri, nello Sri Lanka.

Youssef El Hallal è stato l'unico ad essere arrestato ma, scarcerato dopo la prima udienza del processo, ha fatto perdere le sue tracce. Il processo riparte da zero, quindi, con un'imputazione più grave per il comandante e per gli uomini del suo equipaggio, ma intanto, nonostante gli appelli lanciati al governo per il recupero, i resti straziati di quegli uomini giacciono ancora nel fondo del mare.