il manifesto - 26 Giugno 2002
La società reclusa a rapporto
«Inchiesta sulle carceri italiane», a cura di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella, in libreria da venerdì per Carocci. Il secondo rapporto dell'Associazione Antigone sull'esecuzione penale e sulle condizioni di detenzione in Italia
Un'indagine sullo stato delle patrie galere e sulle condizioni di vita degli oltre 50mila detenuti che le affollano. Una analisi del fallimento dei tentativi di riforma e della tendenza in atto nel paese: il «grande imprigionamento» sotto la parola d'ordine «sicurezza»

STEFANO ANASTASIA
Improvvisamente, qualche anno fa, uno squarcio ha rotto il velo che protegge (ben più fermamente delle alte mura a ciò destinate) l'opacità del carcere. Era una brutta storia, di aggressione e violenze, in cui guardie e ladri s'eran cambiati divisa. E nel cambio le guardie non si limitavano a trafugare illegittimamente, come fanno i ladri e la gran parte degli ospiti delle patrie galere, ma menavano, eccome se menavano! (il riferimento è ai pestaggi che precedettero il trasferimento punitivo di un gruppo di detenuti dal carcere di Sassari, ndr). Lo scandalo nazionale diede modo di far conoscere lo stato delle nostre prigioni, le loro condizioni di degrado, la sofferenza di coloro che vi sono rinchiusi. Per qualche mese si parlò della necessità di riformarle, o almeno di ridurne le inumane condizioni di sovraffollamento. Poi, come usa, la notizia si consumò e orientamenti di segno opposto (non certo di istigazione alla violenza, ma di nuovo investimento sulle capacità di contenimento degli istituti penitenziari) si fecero strada in vista di una importante scadenza elettorale. Da allora, il carcere è tornato nell'oblio. Gli istituti e le vite quotidiane di coloro che vi sono rinchiusi versano nelle condizioni di sempre; il sovraffollamento non è diminuito, anzi è aumentato. Ma nessuno più se ne cura. Come se nulla fosse. In attesa di un nuovo scandalo.Quanti e chi sono le persone detenute nelle carceri italiane (la «criminalità punita», dice Massimo Pavarini, alludendo alla resa di un sistema e ad una selettività che non si risolve nelle astratte minacce di pena e nei giudizi di innocenza o colpevolezza); come e perché il carcere e la più vasta area del controllo penale continua a crescere in questo spicchio di mondo a cui apparteniamo; quali i limiti che inducono al fallimento i timidi tentativi riformistici che di tanto in tanto vengono proposti per ridurre il carico di sofferenze che il carcere porta con sé. Questi sono i tarli che ci rodono nel nostro impegno sui temi della pena e del carcere. Di queste cose cercheranno di trattare sommariamente le pagine che seguono, piccola introduzione alla ricchezza di informazioni e di argomentazioni che sono nei capitoli seguenti e che costituiscono il risultato dell'impari sforzo dell'Osservatorio di Antigone delle persone che vi hanno dedicato generosamente parte preziosa del loro tempo. (...) Al di là delle migliori intenzioni, le politiche penitenziarie degli ultimi anni in Italia hanno seguito due filoni, uno di riduzione del ricorso alla pena detentiva, l'altro di miglioramento delle sue condizioni di esecuzione. Da una parte vi sono il potenziamento delle modalità di accesso all'affidamento in prova al servizio sociale previsto dalla legge Simeone-Saraceni e le leggi per le alternative al carcere per i malati di Aids e per le detenute madri; dall'altra la riforma dell'assistenza sanitaria in carcere, il nuovo regolamento penitenziario e la legge per l'aumento delle opportunità lavorative in carcere. Il nostro primo bilancio è il bilancio di un duplice fallimento.

Sul primo versante - al di là delle polemiche che hanno accompagnato l'approvazione e la prima applicazione della legge Simeone-Saraceni, culminate nella cancellazione dell'obbligo di notifica in mano propria del condannato della opportunità di richiedere l'accesso all'affidamento in prova prima che la sentenza di condanna a pena detentiva abbia esecuzione - la separazione delle politiche penali dalle politiche penitenziarie ha fatto sì che esso si riducesse alla previsione di misure atte a soddisfare diritti fondamentali di persone comunque implicate nella detenzione (dai soggetti gravemente malati cui si rivolgeva la legge su Aids e carcere, ai figli delle donne in stato di detenzione). Senza entrare nel merito dei loro esiti non ottimali - anche in ragione della scarsa considerazione che nella nostra cultura politica e giuridica hanno i diritti fondamentali della persona, sempre compensabili con (e quindi sempre limitabili da) astratti diritti alla sicurezza della collettività - ci basta qui rilevare che esse non hanno voluto e potuto intaccare la centralità della pena detentiva, limitandosi a intervenire su aree marginali della sua applicazione con opzioni di buon senso. La partita della riduzione del carcere ad extrema ratio dell'intervento penale si è viceversa consumata nella schizofrenica tendenza di una politica criminale stretta tra una Commissione ministeriale che indicava il potenziamento delle pene alternative come linea di riforma del codice penale e la proliferazione di nuove fattispecie di reato e di innalzamento delle pene detentive nella legislazione ordinaria. In questo modo, è chiaro, la crescita delle alternative al carcere non ha potuto e non può che essere un contributo all'espansione dell'area del controllo penale, senza che ne siano intaccate dimensioni e qualità.

Sull'altro versante, quello relativo alle condizioni di vita in carcere e alle sue riforme non attuate, una lettura superficiale consente già di individuarne le ragioni di fondo nel fittizio investimento che su di esse è stato fatto: mutare le condizioni di abitabilità delle strutture penitenziarie o assicurare standard di assistenza sanitaria paragonabili a quelli offerti alla generalità della popolazione a costo zero, senza stanziare fondi a favore dell'una e dell'altra impresa, ne rende non aleatorio il successo, ma certo il fallimento. Ciò detto, a questa lettura di buon senso ne è sottesa un'altra, che dà conto dell'intelligenza di chi ha varato simili riforme senza sostenerle finanziariamente: al fondo, qualsivoglia riforma delle condizioni di esecuzione della pena non può consentirle di sfuggire alla sua dimensione afflittiva e la dimensione afflittiva della pena detentiva non riesce ad essere contenuta nella mera privazione della libertà, essendo ad essa connessa una lunga serie di privazioni esplicitamente previste normativamente, ovvero connaturate alla sua esecuzione all'interno di una istituzione totale, le cui necessità di governo travalicano direi quasi programmaticamente i bisogni di coloro che vi sono costretti.

Se e nella misura in cui le politiche penitenziarie non intervengano sugli orientamenti di politica criminale, esse non possono che ridursi a gestire il traffico di esseri umani che sono destinati agli istituti di pena. In questo senso credo che sia utile assumere nella giusta dimensione la rilevanza di pratiche embrionali nel nostro ordinamento e che viceversa in altri paesi del nostro spicchio di mondo hanno un loro relativo consolidamento. Il braccialetto elettronico e la privatizzazione di componenti (strutture, lavorazioni, modelli trattamentali, ecc.) del sistema di esecuzione penale, rispondono infatti alla necessità di rendere praticabile l'incremento di scala nella produzione di controllo penale. Sia il braccialetto elettronico che il coinvolgimento di attori privati nel sistema di esecuzione penale si presentano (possono presentarsi - per esempio nel caso italiano dell'affidamento in prova di condannati tossicodipendenti a strutture del privato-sociale) come forme di riduzione del carcere, ma - in assenza di politiche realmente deflative - non ne sono altro che variabili modulari, dotate della necessaria flessibilità di risposta alla domanda di penalità e all'andamento del controllo penale. In assenza di politiche volte alla riduzione della domanda di penalità e alla domanda di carcere, le alternative al carcere si riducono ad alternative alla libertà per chi sta fuori di esso più che in alternative alla detenzione per chi vi sta dentro.

In altri termini, la sperimentazione di forme di controllo elettronico sul territorio, così come il coinvolgimento di privati nella esecuzione penale, rispondono a necessità obiettive di gestione di una massa crescente di persone soggette a controllo penale, cui la vecchia struttura carcero-centrica e statalista non dà più efficaci risposte. Se dunque il carcere è impossibile da contenere nella sua illuministica promessa di luogo meramente privativo della libertà e irriformabile, essendo a esso connessa una funzione di produzione di deficit in capo a chi vi viene rinchiuso che lo rende inaccettabile rispetto agli standard della vita quotidiana al di fuori di esso, alla sua progressiva riduzione bisogna rivolgersi per trovare alternative al grande imprigionamento cui stiamo assistendo.

Il grande imprigionamento italiano ha una parola d'ordine, alcune figure di riferimento e uno strumentario penalistico consolidato. Si tratta anche in questo caso di parole, figure e strumentario che varcano i confini nazionali, producendo gli esiti analoghi lungo l'asse atlantico che abbiamo visto.

La parola d'ordine è quella sicurezza su cui si giocano destini ed equilibri politici dei governi nazionali nel mondo occidentale. Il lettore italiano ha presente lo svolgimento della ultima campagna elettorale nazionale e la rincorsa reciproca delle due coalizioni contrapposte nel conseguimento del più alto tasso di credibilità nella promozione di adeguate politiche sulla sicurezza. Ma il dibattito nostrano, e soprattutto la centralità della parola d'ordine «sicurezza», ha echi analoghi nelle campagne elettorali nazionali - in corso di svolgimento o prossime ad aprirsi al momento di mandare in stampa questo libro - in Francia e Spagna, mentre ricordiamo che il leader laburista Tony Blair è stato l'inventore dello slogan più amato in materia dalle forze della sinistra europea e americana: «duri con il crimine, duri contro le cause del crimine». La parola d'ordine della sicurezza, come ogni parola d'ordine che si rispetti, interpreta un sentimento diffuso, gli offre una risposta simbolica e, ciò facendo, ne semplifica la complessità, traducendosi in slogan che si vorrebbe in sé rassicurante. Torneremo più avanti sulla questione della sicurezza e, soprattutto sul suo opposto che la rende così fascinosa. Ci basta in questa sede sottolinearne la funzione ideologica che essa ha assunto, giustificatrice di ogni promessa di impegno contro il crimine o contro le cause del crimine. Dietro di essa vi è un mare di opzioni politiche, ma per poter accedere ad esse, per potersi confrontare su di esse, come a un posto di blocco in terre di confine, bisogna conoscere e pronunciare la parola d'ordine richiesta.

Migranti, tossici e minori sono i fantasmi e i motori del grande imprigionamento. La penologia attuariale insegna a selezionare i soggetti a rischio di devianza come destinatari delle politiche di controllo penale. Nel tramonto di ogni finalismo penalistico, il controllo penale attuariale mutua dalla scienza assicurativa i criteri per l'individuazione dei fattori di rischio e vi applica i tradizionali strumenti di incapacitazione, insieme con i più moderni ritrovati tecnologici. Migranti, tossici e minori non sono figure dell'esclusione sociale più di quanto non siano figure dell'estraneità: figure in cui le nostre società non ama riconoscersi, da cui si sente minacciata; figure da neutralizzare con gli strumenti del controllo penale. Wacquant dedica gran parte del suo lavoro alla carcerizzazione dei neri in America, così come alla detenzione degli stranieri in Europa e alla criminalizzazione del consumo di droghe come fattore di selezione dei destinari del controllo penale. Come è noto, in Italia questi fenomeni hanno assunto dimensioni macroscopiche negli ultimi dieci anni. Ma ora anche qui da noi comincia a sentirsi la pressione per una nuova fonte di rischio da mettere sotto controllo. Negli Stati uniti, in Gran Bretagna e in Francia si sono infatti progressivamente diffuse misure di controllo del comportamento dei minori che cominciano ad affacciarsi anche da noi: dopo le prime proposte sull'abbassamento della soglia di imputabilità dei minori, si è giunti a un disegno di legge governativo che intende destinarli quanto prima alle carceri per adulti, levando o riducendo gli sconti di pena che l'ordinamento oggi riserva loro in ossequio alla lettera e allo spirito della Costituzione, mentre, in attesa del coprifuoco, comincia a diffondersi l'idea della video-sorveglianza nelle scuole.

Lo strumentario del nuovo controllo penale si basa sui ritrovati delle nuove tecnologie e della esternalizzazione del controllo penale, insieme con il tradizionalissimo affidamento sulla durezza della pena. Nel disincanto indotto dalla crisi dei fondamenti del diritto penale10, torna con l'amministrativizzazione del controllo penale una durezza di tipo retributivo che si contenta di rendere male per male nella comminazione della pena. Crescono le pene e cresce l'affidamento sulla minaccia della pena detentiva. Ultimo ritrovato è la californiana «three strikes law», di cui viene minacciata l'importazione in Italia.

Loïc Wacquant sembra attribuire principalmente alla responsabilità di potenti think tanks anglo-americani l'importazione in Europa dello stato penale statunitense. E cita in proposito protagonisti e documenti dell'invasione. Non v'è dubbio che una leadership vi sia, nell'espansione del controllo penale così come nella diffusione dell'ideologia e delle politiche neo-liberiste, ma questo non può liberarci dalle nostre responsabilità. L'ordito del potere, quale che esso sia, non basta a giustificare l'affermarsi di tendenze così diffuse e profonde nel nostro mondo. C'è una domanda, di carcere e di pena, che va indagata e capita, per essere decostruita e non assecondata.

Nella domanda di penalità, variabile tutt'altro che secondaria nella determinazione delle forme e dei livelli effettivi del controllo penale, entra in campo la corposa consistenza di quegli immateriali sentimenti di insicurezza che determinano fantasmi, parole d'ordine e politiche concrete del grande imprigionamento. Quella che si riversa sul sistema penale è una penuria sociale di sicurezza ontologica indotta dai processi di sradicamento della società post-moderna, e a essa occorre rispondere. Come scrive Alessandro Baratta al modello dominante del diritto alla sicurezza, fondato sulla esclusione sociale e sulla riduzione della domanda di sicurezza alla domanda di pena e di sicurezza contro la criminalità, occorre contrapporre il modello della sicurezza dei diritti, fondato sull'inclusione sociale, su politiche democratiche, dirette all'empowerment degli esclusi, sulla decostruzione della domanda di pena nell'opinione pubblica e sulla ricostruzione della domanda di sicurezza come domanda di sicurezza di tutti i diritti.

Un simile impegno non è impegno tecnico o per specialisti; non si limita a un lavorio di competenze giuridiche e penalistiche, se anche lo presuppone; un simile impegno è un impegno civile e politico all'altezza delle sfide del nostro tempo, della grande trasformazione indotta dalla globalizzazione nelle istituzioni e nella vita di ciascuno e ciascuna di noi. Questo libro vuole essere un piccolo contributo in questa direzione.



Oggi, in occasione della giornata internazionale delle Nazioni Unite contro la tortura si terrà un incontro «Sullo stato delle carceri italiane» (alle ore 12, presso la Sala Rossa del senato) con la partecipazione dei senatori Luigi Malabarba (Riforndazione comunista), Giampaolo Zancan (Verdi), Guido Calvi (Ds), Alessandro Battistini (Margherita) firmatari di una mozione sui diritti delle persone detenute e di Antigone che presenterà il suo secondo rapporto sull'esecuzione penale e le condizioni di detenzione, «Inchiesta sulle carceri italiane» a cura di Stefano Anastasia - del quale pubblichiamo ampi stralci dell'introduzione - e Patrizio Gonnella (Carocci editore).