il manifesto - 23 Giugno 2002
Chantal Akerman, il cinema di confine
Incontro con la regista. Il suo ultimo «De l'autre cotè», è in cartellone alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Un viaggio tra Messico e Stati uniti divisi dalla globalizzazione, che produce poveri e clandestini contro i quali sparare
CRISTINA PICCINO
In questi giorni a Siviglia è nata un'Europa più esplicitamente a destra, l'Europa dei Berlusconi, degli Aznar che vorrebbero «punire» i paesi poveri da dove proviene l'immigrazione, non contenti di averli sfruttati già in ogni modo, col ricatto degli aiuti sospesi se non collaborano a sufficienza - chi decide parametri e regole, ovvio, non sarebbero loro. E quella di Chirac , che nella tradizione paternalistica si oppone a questo ricatto anche se poi pure lui le elezioni le ha vinte giocando la carta della sicurezza e della lotta alla criminalità e all'immigrazione clandestina, da sempre la carta vincente della destra che sa giocare i suoi colpi migliori sulla debolezza dell'ottusità e dell'azzeramento di coscienza. C'è in questo una curiosa sintonia con la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro - che si è aperta venerdì - e che dedica la retrospettiva alla scoperta del cinema spagnolo nato nel passaggio dal governo socialista a quello di Aznar, eccentrico nell'esprimere ambiguità e contraddizioni. Commedie di amori e sessualità transgender che però hanno assimilato con leggerezza Pedro Almodovar (pensiamo ai film di Alfonso Albacete e David Menkes o ai romanzi di Lucia Extebarria, con la quale hanno scritto la sceneggiatura di I love you baby), la provincia che prende il posto dei set metropolitani cone era nel Marc Recha di Mio fratello, e molto altro che scopriremo sugli schermi pesaresi. Dove comunque si respira l'aria dei tempi in Spagna, molto lontana dalla movida degli anni Ottanta -Novanta, e materiale d'allenamento prezioso per questi nuovi immaginari. E', anche se in modo diverso, l'attualità nei fotogrammi in De l'autre coté, firmato da Chantal Akerman, un altra preziosa proposta del festival diretto da Giovanni Spagnoletti. Che nei percorsi molto differenziati, almeno all'apparenza, conserva la sua necessità, quanto ne hanno fatto dalle origini luogo di resistenza e di scoperta di un cinema indipendente nelle sue espressioni e nei suoi esiti più diversi, capaci anche di rovesciare il senso di «mainstream». Per questo oggi è quasi unico almeno nell'omologato panorama italiano, contro il quale prova a comunicare gli stati del cinema, inquietudini, ambiguità, una ricerca che ne è quasi il fondamento, che prova a rispondere alle nuove tecnologie e anche all'esigenza di un racconto della Realtà. De l'autre cotè ci porta nel cuore delle paure istituzionalizzate a Siviglia, anche se siamo negli Stati uniti lungo il confine con il Messico. Da una parte Agua Priera, Messico, dall'altra Douglas, la meta per chi dall'altra parte di quel muro fa i conti con la fame e la miseria, paga il prezzo della globalizzazione manovrata «dall'altra parte» dalle multinazionali assassine. Sognano una casa, un po' di soldi da mandare alla famiglia. Pagano poliziotti, messicani e americani per questo, rischiano di perdersi nel deserto, di morire di sete e di fame, e quando arrivano trovano gli americani dei ranch che gli sparano addosso. La legge glielo permette, «ci dobbiamo difendere, portano malattie, sporcano» dicono i padroni delle fattorie, rafforzati se non quasi legittimati nella loro guerra contro quegli «alieni» dall'incubo dell'11 settmebre e dal neopatriottismo di Bush II. Poco importa se grazie a quest'«orda» di sottopagati senza alcun diritto ricchezza e benessere sono garantiti. De l'autre coté è il terzo diario di viaggio di Akerman dopo D'est e Sud, si confronta con il presente e come sempre accade nel lavoro di questa cineasta, si muove su un confine che è quello geografico e quello del cinema, realtà e invenzione di un linguaggio strettamente intrecciati, fuori dalla retorica e nel cuore dell'emozione. «Ho quattordici anni, credo» dice un ragazzo all'inizio del film. Più avanti sapremo di una donna, la madre di uno dei ragazzini che è arrivata a Los Angeles e un giorno è scomparsa. «Così, come è venuta - racconta la donna che le aveva affittato una stanza - Con quella tristezza negli occhi che l'accompagnava sempre».

Come mai dopo «Sud» ha scelto ancora gli Stati uniti come luogo dove confrontarsi con la Realtà?

Ci sono diversi motivi, uno è abbastanza semplice, gli Stati uniti sono un po' il simbolo, almeno quello più radicato a un certo livello di immaginario, con cui sintetizzare il concetto di globalizzazione. Però ci sono altre cose che mi hanno spinto lungo quel confine, ero attratta dalla natura selvaggia, dalla dimensione arcaica, dal deserto dove vedevo ancora le tracce dell'epica western. Mi piaceva l'idea di mescolare questa dimensione agli interni di oggi, ai visi, alla povertà. E' strano, è come se fossero stridenti e insieme molto speculari. Il «nord» dove quel «sud» del mondo arriva è a sua volta squallido, non vi è che disperazione, miseria intellettuale, le persone vivono in un modo spaventoso. Eppure non basta a scoraggiare chi arriva «dall'altra parte», che sta molto peggio, è molto più affamato. E la logica vorrebbe che non si arresti o non si uccida come capita lì chi non ha nulla e cerca di sopravvivere.

«De l'autre cotè» infatti costruisce questo incontro obbligato che come tale nega all'origine ogni rapporto.

Non era facile filmare i poveri senza il rischio di scivolare nei luoghi comuni della retorica e della banalità. La mia idea di partenza era mettere in scena la dimensione del sogno e lo scarto che c'è fra questo e la tragedia che si compie ogni giorno su quel confine. Per questo ho scelto il piano sequenza, in cui si incontrano dei sopravvissuti e che mi permette anche di catturare la dimensione del sogno.

Lei ama viaggiare nel cinema. Prima di questo documentario c'è stata «La Captive» una rilettura molto personale della «Prigioniera» di Proust...

Ma lì era una situazione del tutto diversa. Ero molto depressa, l'esperienza di Un divano a New York era stata terribile, stavo a casa sul letto e mi hanno chiamata proponendomi un film che si basava sulla Prigioniera di Proust. Un libro che ho sempre amato, che ha segnato la mia formazione. Poi ho deciso di accettare ma certo non mi interessava fare un adattamento fedele, non mi sono mai piaciuti, ho preferito piuttosto lavorare sui ricordi che avevo della Prigioniera anche perché non mi piaceva l'idea che la gente entrasse al cinema per cercare le proprie immagini del romanzo dimenticando nel confronto il film. E' un rischio che si corre ogni volta che si lavora su un testo letterario molto conosciuto, ed è normale che i lettori abbiamo nella testa il proprio film. Anche sul titolo ho provato a cercare una sfumatura diversa. Quello di Proust si riferisce a uno stato di prigionia fisica, il mio riguarda una condizione più mentale.

Sembra che privilegi il mistero della giovane protagonista (Sylvie Testud) rispetto all'ossessione maschile... I personaggi femminili sono comunque sempre stati centrali nel suo cinema, penso a «Jeanne Dielman», il suo primo film...

Lì c'era un aspetto più legato al movimento femminista anche se non definerei Jeanne Dielman un film femminista in senso militante. Mi interessava dare spazio a una dimensione della donna che non era stata mostrata mai in quel modo, nei suoi gesti quotidiani. Il segno dell'oppressione di questa donna è il suo prostituirsi, per questo uccide l'amante. Il personaggio della Captive è radicalmente diverso. E' libera, ha un suo spazio che l'altro, l'uomo, vorrebbe soffocare, cosa che è impossibile in qualsiasi relazione. Poi forse ci sono delle somiglianze, nel modo di scrivere, nello sguardo, ma questo è naturale, fa parte della mia poetica. Però non è una cosa calcolata, il movimento di ogni film per me nasce in modo abbastanza naturale, poi in questo caso siamo andati avanti abbastanza velocemente, è passato poco tempo tra l'inizio del film e la fine della scrittura.

C'è anche un elemento autobiografico che ritorna...

Credo che sia inevitabile anche se pure lì i piani si mescolano. Forse il film in cui è più esplicito è quello che ho realizzato per la serie di Arte Toutes les garcons e les filles dans leur age, dove parlo di me, della mia scoperta del mondo nella Bruxelles in cui sta per scoppiare il Sessantotto. Ma era inevitabile, era quello il presupposto del film. C'era la canzone di Leonard Cohen, Suzanne, la musica della mia adolescenza.