il manifesto - 05 Giugno 2002
L'impronta non è garantita
Impronta digitale per tutti sulla carta d'identità elettronica,la trovata «egualitaria» di Rutelli e Mantovano che introduce le schedature di massa. Ma deve fare i conti con il diritto alla riservatezza dei dati personali. E né i precedenti interventi del garante della privacy italiano, né la normativa europea le promettono vita facile
IDA DOMINIJANNI
ROMA
Come si fa a eliminare una discriminazione odiosa come la schedatura tramite impronte digitali di qualunque straniero voglia soggiornare nello Stivale (anzi nella Nostra Patria, come si dice adesso)? Semplice: la si estende ai cittadini italiani. Carta d'identità elettronica con impronta per tutti et voilat, il gioco è fatto e l'odiosa discriminazione è eliminata. La geniale trovata di Francesco Rutelli, non per caso accolta con slancio dalla maggioranza, rimetterebbe dunque a posto l'uguaglianza dei diritti, e non sono in pochi a crederci. Invece non fa che legittimare una pratica da stato di polizia che, se davvero diventasse valevole per tutti, sarebbe per tutti lesiva di diritti fondamentali: tra i quali, che la maggioranza e Francesco Rutelli lo sappiano o no, c'è il diritto alla riservatezza dei dati personali. Ma diventerà davvero una pratica valida per tutti, come l'ordine del giorno votato alla camera vorrebbe? Di ordini del giorno che restano sulla carta è piena l'attività parlamentare. Questo sulle impronte digitali parte in vantaggio, perché non abbisogna di una nuova legge per diventare operativo: può mettersi in viaggio sull'autostrada spianata dalla Bassanini ter, che contempla la possibilità (non l'obbligo) di inserire, fra i dati della nuova carta d'identità elettronica, anche i dati biometrici (impronte digitali, iride). Ma questa possibilità, per diventare norma, richiede un decreto del presidente del consiglio, previo parere del garante della privacy. Sul primo è evidente che i nostri fautori della schedatura di massa possono contare. Ma sul secondo?

Nella sede del garante, giusto di fronte al parlamento in piazza Montecitorio, sulla legge sugli immigrati e relativa questione delle impronte tutti tacciono, proprio perché il garante ne verrà, prima o poi e più prima che poi, inevitabilmente investito e dovrà pronunciarsi in via ufficiale. Ma basta riaprire l'ultima relazione annuale pronunciata poche settimane fa dal presidente Stefano Rodotà in parlamento, per scommettere che sull'autostrada della Bassanini ter la geniale trovata di Rutelli e Mantovano troverà qualche consistente ostacolo. In quelle scarne e dense pagine, tutte dedicate al problema dell'habeas data nelle società del controllo totale, al capitolo sulle tecnologie biometriche si trova scritto che esse «richiedono analisi attente sia delle modalità di utilizzazione, sia dell'affidabilità». Che «una cosa è il ricorso alle tecniche biometriche quando si tratta di verificare, ad esempio, l'identità di chi accede a un'area protetta; altro sarebbe la loro adozione per finalità di identificazione di massa». E ancora, «una cosa sarebbe utilizzare su larga scala dati biometrici senza che ciò comporti la parallela costituzione di banche dati; altro sarebbe passare a raccolte che consentano improprie forme di classificazione delle persone o permettano controlli eccedenti la specifica finalità dell'identificazione». Tradotto: l'uso delle impronte può essere talvolta necessario o utile, ma solo in casi determinati (ad esempio quando si debba accertare l'identità di persone con documenti sfasciati o contraffatti), non può essere generalizzato e non può essere sproporzionato rispetto ai fini che si propone (ad esempio, non si può allestire una banca dati e schedare milioni e milioni di persone per smascherarne dieci in stato di illegalità).

Del resto, a questi criteri di «pertinenza» e «proporzionalità» il garante si è già ispirato per intervenire sull'uso da parte di alcune banche delle impronte digitali dei clienti come password per accesso agli sportelli, restringendone la possibilità solo a situazioni ad alto rischio e imponendone la cancellazione dopo 24 ore. Quanto alla Bassanini ter, chiese lumi già ai tempi della sua approvazione su quella «possibilità» di mettere l'impronta sulla carta d'identità: chi decide se metterla, il comune o il cittadino? L'allora ministro Bianco lasciò aperto l'interrogativo. Nel frattempo in alcuni comuni, come Parma, l'esperimento è stato avviato, ma al garante la documentazione in materia non è mai arrivata.

Non soccorre l'introduzione in Italia della schedatura di massa neanche la normativa europea, checché se ne dica in questi giorni. «Eurodac», il sistema istituito dal consiglio europeo per il confronto delle impronte digitali, ne restringe l'uso ai richiedenti asilo e ai clandestini: nel primo caso l'impronta viene presa per verificare che la richiesta d'asilo sia stata inoltrata in un solo paese, e cancellata non appena sia stata ottenuta la cittadinanza del paese ospitante; nel caso dei clandestini, viene presa quando vengono espulsi per evitare recidive, e cancellata subito se ottengono il permesso di soggiorno. E, a onta di chi vuole leggere Eurodac come una porta aperta alle schedature, tutto il testo istitutivo è ispirato invece a una estrema cautela. In compenso nella Ue circola un progetto contro la falsificazione dei documenti, ma di questo da noi non si parla.

Quanto ai singoli paesi europei, il Portogallo è l'unico a prevedere impronte obbligatorie per tutti sulla carta d'identità (obbligatoria), in base a una vecchia normativa. In Francia e in Spagna l'impronta (su carta d'identità non obbligatoria) è stata eliminata anni fa (e quando c'era non c'erano banche dati). In Grecia, dove la si voleva introdurre, il garante l'ha bocciata perché «sproporzionata» rispetto ai fini. In Belgio, dove la carta d'identità è obbligatoria, non c'è impronta per i belgi; in compenso vengono schedati gli extracomunitari. In Gran Bretagna, dove la carta d'identità non esiste, è stata proposta la sua introduzione con impronta dopo l'11 settembre, ma è lungi dall'essere approvata; alibi dell'11 settembre anche in Germania, per il pacchetto Schily da poco presentato che inasprisce il controllo sui soli starnieri.

Infine. La geniale trovata della schedatura generalizzata è molto meno geniale di quanto sembri anche dal punto di vista tecnico-amministrativo. Primo, perché la carta d'identità, fino a prova contraria, in Italia non è obbligatoria. Secondo, perché non garantisce affatto quello che promette, non esistendo allo stato un software capace di identificare una persona su 54 milioni tramite un'impronta. Terzo, perché l'impronta digitale può essere falsificata dal suo titolare: vedi il recente caso di un giapponese che si è fatto un finto dito e ha ingannato i sensori. E soprattutto può essere riprodotta da chi la raccoglie: metti il caso di un funzionario comunale che trovasse utile usarne una a caso per «costruire» la prova di un delitto. Fantascienza? Mica tanto.