il manifesto - 01 Giugno 2002
IMMIGRAZIONE
Bossi non piace al nord-est
Perché sono proprio le aziende venete a criticare la legge della Lega e di Alleanza nazionale
MANUELA CARTOSIO
MILANO
«Non possiamo prendere atto, silenziosamente, della scelta del governo». E così 12 associazioni imprenditoriali del Veneto la loro protesta l'hanno messa nero su bianco in un lettera a Berlusconi, Fini e Maroni. Sono delusi e contrariati perché il governo ha ritenuto inammissibile un emendamento alla Bossi-Fini redatto dalla Regione Veneto d'intesa con le organizzazioni imprenditoriali. L'emendamento proponeva di riconoscere alle Regioni la possibilità di concordare con il governo le quote d'ingresso di lavoratori stranieri. Per assicurarsi i 25 mila immigrati di cui annualmente hanno bisogno, gli impreditori veneti erano disposti a metterci del loro: investimenti (ben inteso defiscalizzati) per agevolare l'incontro della domanda e dell'offerta di forza lavoro nei paesi d'origine, per formarla e per costruire case in cui alloggiarla. La garanzia in solido non è bastata a convincere il centro destra; al governo è mancata «la serenità di giudizio», affermano gli imprenditori veneti. Sul tema «aspro» dell'immigrazione si è lasciato condizionare dall'opinione pubblica (e, sottinteso, dai falchi interni alla maggioranza).

L'insoddisfazione dei padroni veneti non si ferma all'emendamento cestinato. Si estende alla Bossi-Fini nel suo complesso, anche se per ammetterlo Luigi Rossi Luciani, presidente degli industriali veneti, usa parecchia diplomazia «democristiana» (l'aggettivo è suo). Se fosse un parlamentare voterebbe a favore della Bossi-Fini, «ma con alcune modifiche». Modifiche, però, non di poco conto. Ricongiungimenti familiari più larghi, impronte digitali «per tutti, non solo per gli stranieri», più sensibilità per l'accoglienza e, soprattutto, procedure più spedite: «I tempi delle aziende sono veloci, quelli imposti dalla legge per far arrivare una persona sono biblici».

Rossi Luciani, titolare della Carel (settore elettronica), accetta il contratto di soggiorno: «In tutta Europa il permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro». Però, assicura, le imprese non lo useranno per ricattare gli immigrati. Bontà d'animo? No, solide e concrete ragioni oggettive. «Il bisogno di immigrati nel Nordest non è congiunturale, ma strutturale. Il tasso di natalità è crollato e gli italiani rifiutano certi lavori. Un neoassunto su sette nel Nordest è extracomunitario. Il Veneto ha l'indice più alto (60%) di stranieri iscritti all'Inps, il 54% dei 152 mila residenti sono coniugati, il 43% sono donne, 25 mila sono minori». Questa non è un'emergenza, è una presenza «stabile», che crescerà dall'attuale 4% sul totale della popolazione al 15% nel 2020. Per questo, le imprese non sono interessate al mordi e fuggi: «Vogliamo pensare e programmare il futuro nostro e di questo territorio, non in chiave grettamente utilitaristica».

Il pendolo chiusura-sanatorie, aggiunge Rossi Luciani, impedisce di programmare con razionalità e lucidità. Il che non toglie che i «mandanti» dell'emendamento Tabacci - ieri giubilato dal governo - siano gli imprenditori, in particolare quelli del Nordest. «Mandanti è una parola forte», replica Rossi Luciani: "Diciamo che l'abbiamo condiviso». Perché, spiega, gli irregolari ci sono, non si possono espellere in massa, quindi «meglio che emergano invece che vivano d'espedienti». Neppure l'aver avuto in casa (a Vicenza) il primo sciopero di migranti scalfisce la buona disposizione di padron Rossi: «Ho preso atto, è un loro diritto».

Una settimana fa, in un convegno a Forlì, il direttore di Confindustria Stefano Parisi sull'immigrazione aveva detto cose radicalmente diverse, del tipo «aiutiamoli a casa loro». Sospettando che gli industriali veneti ciurlino un po' nel manico, verifichiamo la loro attendibilità con Diego Gallo, segretario regionale della Cgil. «Non stanno vendendo fumo», assicura. L'accordo di programma tra parti sociali e Regione, che l'emendamento cercava di far entrare nella Bossi-Fini, è «una cosa sensata, da condividere». Ovvio che gli imprenditori dell'immigrazione vedono soprattutto l'utile. Altrettanto scontato che ci sarà sempre il padrone che userà a suo vantaggio il potere disrezionale e ricattatorio che il contratto di soggiorno gli mette in mano. «Ma nessun padrone qui si sbraccia a dire che il contratto di soggiorno va bene. Anzi, li vedo piuttosto perplessi perché non soddisfa le loro esigenze». Del resto, anche sull'articolo 18 gli imprenditori veneti sono stati più che freddi sulla linea D'Amato. Sempre per la stessa ragione: «Il loro problema non è licenziare, ma assumere». Passata la sbornia del tempo determinato, usato ancora come periodo di prova, c'è un ritorno alle assunzioni a tempo indeterminato. Le aziende cercano di tenerseli stretti i loro lavoratori, e questo vale anche per gli immigrati.