il manifesto - 17 Maggio 2002
Mezza luna d'Europa
Percepiti come una presenza ostile e spesso assimilati al fondamentalismo di Al-Qaeda, i musulmani che vivono in Occidente vedono sempre più minacciata la propria identità. Soprattutto dopo l'11 settembre. Delle prospettive e delle difficoltà che incontrano oggi i cittadini europei di religione islamica, parliamo con Tariq Ramadan
TIZIANA BARRUCCI
STEFANO LIBERTI

«Dopo l'11 settembre, la frattura tra il mondo musulmano e l'Occidente si è fatta sempre più profonda. La situazione è a rischio anche in Europa, con un sentimento persistente di islamofobia». Tariq Ramadan, professore di islamologia all'Università svizzera di Friburgo, nipote di Hassan el Banna - il fondatore dei Fratelli musulmani ucciso in Egitto nel 1949 - studia da anni i rapporti tra islam e Occidente e i problemi d'integrazione dei musulmani europei. Aspetti a cui ha consacrato diversi libri, due dei quali appena comparsi sul mercato editoriale italiano: uno - Essere musulmano europeo (Città aperta editore, pp. 340, 20 euro) - è dedicato alle prospettive e alle difficoltà dei cittadini europei di confessione musulmana. L'altro - Intervista sull'Islam (edizioni Dedalo, pp. 240, 15 euro) - è il resoconto di un lungo duetto condotto negli ultimi due anni da Ramadan con Alain Gresh, capo-redattore di Le Monde diplomatique, nel corso del quale i due hanno confrontato le proprie opinioni sulla percezione dell'islam in Occidente, sugli equilibri e gli squilibri mondiali, sulla globalizzazione. Un dialogo riproposto la settimana scorsa a Milano durante una delle serate con i redattori di Le Monde diplomatique promosse dall'Associazione culturale Punto rosso e da Attac Italia. Incontriamo Ramadan al centro di cultura islamica di Milano, dove ha presentato il suo libro Essere musulmano europeo, in un dibattito organizzato dall'Unione delle comunità islamiche in Italia e dai Giovani musulmani d'Italia.

Cosa è cambiato dopo l'11 settembre nel rapporto tra islam e Occidente?

L'11 settembre ha risvegliato una serie di timori sempre esistenti sottotraccia. Se molti giornalisti, soprattutto della carta stampata, hanno cominciato a interessarsi veramente all'islam, compiendo un reale sforzo di comprensione, i grandi media invece hanno eluso questo problema finendo per veicolare la convinzione che l'Occidente è contro l'islam e viceversa. Quest'idea è aberrante, dal momento che le due entità sono profondamente compenetrate. Tuttavia posso dirvi che, avendo visitato i paesi musulmani dopo l'11 settembre, ci sono tutti gli ingredienti per uno scontro reale.

Quali sono questi ingredienti?

Il primo è l'ignoranza di sé. C'è una sorta di smarrimento generalizzato, in cui si è persa la percezione dei valori da difendere. Il secondo, legato al primo, è l'ignoranza dell'altro. Nel mondo musulmano l'Occidente è rappresentato in modo caricaturale, e lo stesso avviene per l'islam in Occidente. Esiste dunque un deficit di comprensione, che si è ulteriormente approfondito con le ultime vicende internazionali. E qui arriviamo al terzo ingrediente: gli interessi geostrategici in gioco. Non possiamo non pensare che gli Stati uniti abbiano tratto enormi vantaggi dagli eventi successivi all'11 settembre. Hanno potuto stabilirsi in Afghanistan, nelle ex repubbliche sovietiche, ora andranno probabilmente in Iraq. E nel mondo arabo di certo non si ignora la profonda ipocrisia del discorso occidentale, di una retorica che si ammanta di buoni propositi per i fini più grezzi. Insomma, che differenza c'è tra il regime saudita e i taleban? Si colpiscono i taleban perché sono poveri e potrebbero avere il petrolio e si lasciano in pace i sauditi perché sono ricchi e hanno il petrolio. Quello che è in azione oggi è un gioco strategico generale che può portare ad un vero e proprio scontro di civiltà.

Uno scontro di civiltà di cui faranno le spese i musulmani?

Sono convinto che, a medio termine, lo sviluppo di una nuova politica securitaria, tanto a livello internazionale che dei singoli stati, non prenderà di mira solo i musulmani, ma tutti coloro che contestano l'ordine costituito. Il modello che ci stanno proponendo è quello di una società poliziesca. Questo modello si basa su una serie di definizioni a geometria variabile, come quella di terrorista. Una definizione che ormai chiunque usa per indicare il proprio nemico e giustificare le azioni più abiette: Sharon ha Arafat, Putin i ceceni, e così via. La cosa più pericolosa oggi è costituita proprio da questi continui slittamenti semantici: le parole diventano il metro di giudizio per le azioni politiche. Ecco quindi svilupparsi una terminologia in funzione degli interessi perseguiti: si è parlato di terrorismo, di scontro di civiltà. Domani si potrà parlare di lotta per i diritti umani o di guerra contro l'asse del male. Nella gestione della questione palestinese, in particolare, è in atto una vera e propria guerra delle parole. Prendete il caso di Jenin. Ci si è affannati per cercare di capire se vi fosse stato o meno un massacro - con discussioni interminabili sul significato stesso della parola «massacro» -, facendo passare in secondo piano il fatto che c'era stata un'aperta violazione della Convenzione di Ginevra.

Anche l'uso del termine «martire» può essere considerato parte di questa guerra delle parole?

È un dato di fatto che secondo il Corano chiunque muoia difendendo i propri diritti è un martire. Si tratta quindi di un concetto generale che è ben presente nella tradizione musulmana. Ma ogni situazione deve essere considerata nel suo contesto. Una cosa sono gli attentati contro il World Trade Center, che sono da condannare senza condizioni. Un'altra gli attacchi suicidi compiuti dalla resistenza palestinese, la quale solo nell'ultimo periodo ha cominciato ad utilizzare tali mezzi estremi. Questa deriva è stata determinata dall'abbandono della Palestina da parte della comunità internazionale: gli Stati uniti sono schierati apertamente con Israele, l'Europa tace. I palestinesi non sono in grado di colpire né i militari, né le colonie, che sono armate. E non hanno altro mezzo che il sacrificio della propria vita per essere riconosciuti a livello mediatico. Se l'uccisione di innocenti e di civili è condannabile, allo stesso tempo quello che oggi accade in Palestina è comprensibile. Il contesto, la sproporzione delle forze ci obbligano a capire.

Gli attentati sarebbero quindi parte di una strategia tesa ad attirare l'attenzione internazionale? Se questa è la strategia, non rischia di essere controproducente?

Non credo si stia seguendo una strategia precisa. Un popolo sta semplicemente dicendo alla coscienza internazionale: se voi non intervenite per bloccare l'elefante, non dovete sorprendervi che il topo farà saltare tutto per aria. Nulla ormai in Palestina può risolversi senza l'intervento della comunità internazionale. Ecco perché mi sembra che i palestinesi ci stiano lanciando un monito: o agite secondo i vostri principi imponendo ad Israele una soluzione equa oppure sarete complici oggettivi della nostra morte.

Come giudica l'inazione degli stati arabi sulla questione palestinese?

Esistono nei paesi arabi due ordini di problemi. Il primo è l'immobilismo intellettuale e politico. Il secondo è la posizione di subordinazione all'Occidente nella partecipazione al sistema economico globale. Basti pensare all'Arabia saudita, un regime dittatoriale dove un'unica famiglia regna incontrastata e si arricchisce vendendo il petrolio all'Occidente. L'atteggiamento della dinastia saudita è profondamente ipocrita: essa alimenta un sistema economico-finanziario intrinsecamente contrario ai principi islamici, di cui pure afferma di essere la custode.

Perché questo sistema è contrario ai principi dell'islam?

Uno dei fondamenti dell'islam è il rifiuto della speculazione e dell'economia basata sull'interesse. L'attuale globalizzazione economica è la globalizzazione di un sistema di speculazione finanziaria che è di per sé contrario a tale principio. Ecco perché io sostengo che, in linea teorica, la resistenza al neo-liberalismo è in qualche modo consustanziale alla religione musulmana. I musulmani dovrebbero per principio sviluppare forme di resistenza a questo modello.

In che modo?

Creando cooperative di sviluppo, banche alternative, piccole e medie imprese che, proprio a partire dal sistema, siano in grado di uscire dal sistema. Il mio obiettivo è convincere la coscienza musulmana che è questa la nostra lotta. Io definisco il sistema economico internazionale dar el harb, ossia lo spazio della guerra; il che mi crea non pochi problemi con i miei correligionari. Ma noi siamo in guerra contro questo sistema. E, nell'islam classico, quando si è nel dar el harb si possono utilizzare i mezzi del nemico per uscire dalla sua logica. Oggi, il 99% degli imprenditori musulmani è bloccato, perché non può chiedere prestiti. Io dico loro: smettetela. Chiedete prestiti. È solo utilizzando questi mezzi che potremo fermare il sistema della speculazione e creare un modello alternativo. Tutti i cittadini occidentali di confessione musulmana, americani ed europei, dovrebbero uscire dal loro isolamento e cominciare a lavorare con i gruppi che sono in resistenza. È per questo che ho cominciato a tessere forme di partenariato con le reti alternative, con Attac, con il movimento per una globalizzazione diversa.

Questo nel mondo occidentale. E nei paesi islamici?

È il passo successivo. Per molto tempo, le idee si muovevano dal mondo musulmano verso l'Europa, perché eravamo noi gli esiliati. Ora lo scambio è strutturato in senso inverso: sono le idee di noi musulmani europei a diffondersi a macchia d'olio nei paesi di confessione islamica. Il mio libro Essere musulmano in Europa, per esempio, è tradotto in lingua indonesiana, in urdu, in arabo. Quindi, una problematica apparentemente di carattere locale - come quella dell'integrazione dei nostri correligionari nel modello europeo - finisce per suscitare interesse in tutto il mondo musulmano. E non è un caso: essa investe una serie di tematiche generali legata alla condizione di minoranza e alla crisi di identità che ne deriva.

In che modo l'identità musulmana sarebbe messa in pericolo dall'integrazione nel modello europeo?

Quando si parla dell'integrazione dei musulmani in Europa, bisogna fare una distinzione tra il problema interno relativo alla definizione della propria identità - un problema che investe la sfera affettiva, psicologica e culturale - e quello del riconoscimento esterno, legato non solo all'ambito del diritto, ma anche al modo in cui viene rappresentato l'islam. Quest'ultimo è spesso percepito come una presenza ostile e associato alla violenza e al terrorismo. È considerato un corpo estraneo, un elemento che non appartiene alla realtà europea. È anche per questo che i musulmani tendono a sviluppare un atteggiamento di difesa.

Tale atteggiamento di difesa non può sfociare in un ripiegamento identitario?

Non direi. Credo che quello della definizione della propria identità sia un passaggio obbligato. L'Europa - bianca e cristiana - di per sé non prevede alcuna forma di inclusione del diverso, né la possibilità di modelli di appartenza multipla. L'identità di cui parlo io è aperta e interattiva, e non chiusa e isolata. Se dobbiamo evitare di cadere in un'ossessione identitaria, noi musulmani non possiamo eludere questo momento importante in cui cerchiamo di definire un nostro specifico senso di appartenenza. Ciò che dobbiamo fare è normalizzare la nostra presenza senza banalizzarla. È un cammino tutto ancora da tracciare, soprattutto in una realtà come l'Unione europea, che si definisce pluralista ma è assolutamente omogenea e assai poco flessibile.

Crede che sia stata questa scarsa flessibilità a determinare in Francia le polemiche sul foulard a scuola?

Il problema del velo o del foulard è legato a quello della percezione generale che si ha dei musulmani. Quando una donna decide di sua spontanea volontà di indossare il velo o il foulard, non la si può obbligare a toglierlo. Diverso è il caso in cui una donna è costretta a portarlo. Le persone devono essere libere di scegliere. Ma, a mio avviso, in Europa e in particolare in Francia, quello del velo è un falso problema. Il problema reale riguarda ancora una volta la rappresentazione. È stato dimostrato che le ragazze che indossano lo hijab sono le più integrate, quelle che raggiungono i migliori risultati scolastici. Dobbiamo allora metterci d'accordo sul significato della parola «integrazione»: vogliamo un'integrazione dell'apparenza o un'integrazione reale? Si può infatti essere completamente integrati a livello di abbigliamento e disintegrati socialmente, come accade in alcune banlieues, in cui i giovani sono completamente abbandonati a se stessi.

Va detto però che, se il modello europeo è rigido, quello della maggior parte dei paesi musulmani non è certo più aperto....

Ritengo che vada rifiutata senza indugi qualsiasi riflessione sulla reciprocità: quell'idea per cui, visto che negli stati musulmani alcuni diritti non vengano rispettati, lo stesso debba accadere in Europa. Il diritto non è una merce, e non può essere frutto di una negoziazione. È un valore assoluto e i cittadini musulmani dei paesi occidentali non sono responsabili di ciò che fanno i regimi repressivi e dittatoriali dei paesi d'origine, anche se hanno il dovere morale di criticarli.