il manifesto - 15 Maggio 2002
Giovanna, Maria, le altre. In strada
Prostitute e prostituite Alcune proposte «sul campo»: lotta agli schiavisti, riduzione del danno, emersione dalla clandestinità. Per una discussione fuori da moralismi e ideologie
ANDREA MORNIROLI
Maria è moldava, è priva di permesso di soggiorno, fa la prostituta in Italia da circa 6 anni. Ha 30 anni. Noi (che lavoriamo a un progetto di intervento sulla prostituzione migrante) la conosciamo da due anni circa. Vive con il suo uomo, che la protegge e con cui divide, in modo concordato, il 50 % dei guadagni. Qualche mese fa ha richiesto di essere accolta in una nostra struttura perché voleva riflettere con calma sulla sua vita, sulle aspettative future, fuori dallo stress della strada e del lavoro. Dopo una serie di colloqui, e valutata la sua situazione le abbiamo proposto quelle che ci sembravano le uniche opportunità possibili (anche data l'attuale normativa in materia di soggiorno): a) aderire ad un programma di protezione sociale secondo quanto stabilito dall'art.18 della Legge 40, quindi l'abbandono della strada, e la ricerca, con il nostro supporto, di un'alternativa socio-lavorativa alternativa alla prostituzione (anche con il sostegno di una borsa lavoro per i primi 6 mesi);

b) ritornare in modo assistito al proprio paese di origine, al fine di ricongiungersi con la madre e il figlio (rimpatrio assistito garantito attraverso la rete che il nostro progetto ha con enti che si occupano di tale intervento);

c) tornare a fare la prostituta, con tutti i rischi del caso, garantendole comunque, come progetto, di continuare con lei le attività informative, di prevenzione e tutela della salute, di costruzione di pari opportunità di accesso al sistema dei servizi .

Dopo averci pensato, Maria ha chiesto di parlarmi in qualità di coordinatore del progetto, e più o meno le sue parole sono state le seguenti: «Guarda Andrea, io ho iniziato a fare la prostituta perché ogni volta che mio figlio mi chiedeva qualcosa che non fosse il pane, io dovevo dirgli che non potevo. Da quando sono in strada, posso comprargli i vestiti, mandarlo a scuola e forse quest'anno gli compro anche il motorino. In più riesco a mantenere anche mia madre che è rimasta sola e fa tanto per me. Le cose che tu mi offri mi farebbero tornare indietro, per cui ti ringrazio ma io torno in strada». Oggi Maria continua a lavorare. Tutte le settimane la incontriamo, ci chiede piccoli interventi, le offriamo gli strumenti di riduzione del danno, chiacchera con le mediatrici, ci aiuto con le nuove ragazze, mandandole sul camper, distribuendo i volantini del servizio, rassicurandole sul fatto che possono avere fiducia nel progetto.

Giovanna è albanese, ha 20 anni, oggi lavora come segretaria in un'altra città. Fino a 6 mesi fa faceva la prostituta (da tre anni), costretta e minacciata a farlo da un piccolo clan di albanesi. Dopo numerosi contatti con l'unità mobile e soprattutto grazie al lavoro della mediatrice culturale ha trovato la forza di scappare, di denunciare i suoi sfruttatori (oggi in galera) e di entrare in un nostro programma di protezione e di supporto all'inclusione socio-lavorativa che appunto si è concluso in modo positivo con l'ottenimento di un lavoro con contratto a tempo indeterminato.

Due casi singoli e diversi tra loro, ma che rispecchiano in modo fedele la situazione della maggioranza delle donne prostitute/prostituite con cui siamo venuti in contatto in circa due anni di attività. Molte donne sottoposte al traffico, schiavizzate, continuamente violentate fisicamente e psicologicamente. Molte altre che pur non avendo sfruttatori hanno individuato nella prostituzione l'unico possibile progetto migratorio per uscire dalla fame e dalla miseria, per mantenere le loro famiglie nei paesi di origine.

Situazioni assai diverse ma con le quali cerchiamo di avere lo stesso approccio. Cioè quello di riconoscere, in primo luogo, le donne come persone, come soggetti di diritto, indipendentemente da condizioni, status giuridico, costrizione o meno nel lavoro di prostituta. Cercando sempre di proporci in modo non moralistico, non salvifico, ma offrendo le possibili opportunità, riconoscendo alle donne la capacità di scelta e di assumersi delle responsabilità, di partecipare attivamente e in modo consapevole ai servizi e agli interventi attivati. Ed è a partire da tale approccio pragmatico, come coordinatore di un progetto che quotidianamente ha a che fare con le donne prostitute/prostituite, con i loro bisogni e le loro aspettative che vorrei intervenire nel dibattito sulla prostituzione che in questi giorni si è aperto in seguito alle dichiarazioni di Bossi (l'onorevole non me lo sono dimenticato è che mi sembra del tutto inadatto).

In primo luogo, mi sento offeso e indignato per l'ennesimo dibattito sulla prostituzione completamente superficiale, demagogico e strumentale, e soprattutto, eticamente inaccettabile, perché non esita, in nome delle appartenenze e della creazione del consenso elettorale, a calpestare i diritti e la dignità di migliaia di donne già colpite quotidianamente dal pregiudizio, dalla precarietà di vita e di diritti, dal disprezzo di molti. Anche se poi una parte di quei molti «ne fa uso» per malessere, riaffermazione di virilità e potere, per soddisfare voglie che la «normalità» e la morale considerano tabù.

E allora, forse, bisognerebbe tutti quanti provare a programmare e implementare interventi che sappiano intrecciare e adeguare alle diverse situazioni tre diverse esigenze:

1) Lotta al traffico e ai nuovi schiavisti;

2) Ridurre i danni e tutelare i diritti delle donne prostitute/prostituite;

3) Favorire l'emersione delle donne dalla condizione di irregolarità in materia di normativa sul soggiorno.

Sul primo punto, oltre a incrementare le forme di contrasto e di repressione, anche prevedendo un inasprimento delle pene, sicuramente andrebbero potenziate le risorse e gli strumenti per il potenziamento e la diffusione territoriale dei progetti e delle procedure collegati all'art. 18 della Legge 40, che come l'esperienza ha dimostrato si sono rilevati un mezzo importante per supportare le donne nei percorsi di uscita, per tutelarle dal punto di vista della salute e dei diritti e contemporaneamente per mandare in galera decine di sfruttatori. Occorre, invece, abbandonare la logica delle retate e delle espulsioni perché, lungi dal risolvere il problema, provoca due tipi di danno grave: da un lato rendono due volte vittime le donne, dall'altro spingono i trafficanti a nascondere la prostituzione in luoghi chiusi, dove difficilmente i progetti, gli operatori e le mediatrici possono arrivare.

Altro tema centrale è la «riduzione del danno», le cui strategie andrebbero stimolate e implementate, non solo perché importanti per la salute delle donne (ma anche dell'intera comunità visto che se le donne in strada sono quasi tutte migranti, i clienti sono quasi tutti italiani e, spesso, mariti e fidanzati), ma anche perché rappresentano un insostituibile strumento di primo contatto e costruzione di relazioni fiduciari tra operatori e donne in strada.

Ma non si tratta solo di prevenzione e tutela della salute. Ridurre i danni significa anche attrezzare le aree urbane di prostituzione, per evitare che le donne subiscano violenze e soprusi di ogni genere. In tal senso sono auspicabili interventi di illuminazione, di arredo con panchine e cassonetti, di controllo di polizia per intervenire non sulle donne (che in quanto prostitute, ricordo, non commettono nessun reato per la legge italiana), ma su quei clienti o su quei branchi che spesso passano nelle strade dove lavorano le ragazze per insultare, lanciare oggetti, picchiare. Tali interventi, per altro eliminerebbero gran parte di quella conflittualità sociale che spesso non è determinata dalla presenza in se delle donne, ma dalla sporcizia e dalla «tensione relazionale» che si viene a creare nelle zone di esercizio della prostituzione.

In merito all'emersione del fenomeno, in prima istanza, andrebbero eliminati dalla attuale normativa i reati di favoreggiamento e adescamento, che non solo finiscono per colpire solo le donne ma non permettono il realizzarsi di forme di emancipazione, quali ad esempio la possibilità di affittare un appartamento insieme per l'attività di prostituzione che, nei fatti, consentirebbe maggior sicurezza, maggiore tutela della salute, maggiore possibilità di scelta dei clienti rispetto a quella realizzabile in strada.

Ancora, credo sarebbe utile ragionare su proposte di legge come quella recentemente approvata in Germania, che ha riconosciuto la prostituzione come attività di lavoro autonomo, tassabile, ma anche condizione sufficiente per l'ottenimento di un regolare permesso di soggiorno. Va detto che per molte donne, così come le stesse ci dicono in strada, il poter ottenere un permesso sarebbe il primo necessario passaggio per cercare una nuova situazione di vita e di lavoro, alternativa alla prostituzione.

Quelli che ho cercato di portare, a partire dall'esperienza di campo, sono alcuni spunti di riflessione, del tutto aperti al confronto e alla critica. Mi piacerebbe moltissimo che il manifesto su questo tema aprisse un dibattito vero, fuori da ogni moralismo e impianto ideologico, da ogni logica salvifica e strumentale che, almeno così mi pare, è proprio l'unica cosa di cui le donne prostitute e prostituite non sentono la necessità.

Andrea Morniroli è coordinatore di un progetto di intervento sulla prostituzione migrante