il manifesto - 30 Marzo 2002

Il barbiere che corsefino in Iraq
La diciannovesima edizione di «Vivicittà» allarga i suoi confini, abbraccia anche l'Africa e torna per il terzo anno consecutivo a Baghdad. Con un maratoneta romano amato più di Saddam
SEBASTIANO TRIULZI
Alle volte lo sport può impunemente varcare ogni confine, attraversare il territorio più impervio, costituirsi come ponte fra diverse culture, raggiungere la più isolata delle società, e divenire messaggio di un sentimento etico e civile condiviso. E' quanto sta alla base della manifestazione podistica «Vivicittà», giunta quest'anno alla XIX edizione. La corsa, organizzata come ogni anno dall'Uisp (Unione italiana sport per tutti) e coadiuvata da Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, farà il giro del mondo fra il 7 aprile e il 26 maggio. Tra i paesi che ospiteranno la manifestazione figura, per il terzo anno consecutivo, anche l'Iraq: nel novero dei partecipanti alla mini-maratona di 12 km, vi sarà anche Giuseppe Papaluca, una sorta di eroe a Baghdad. Nel 2000, il maratoneta romano, che di professione fa il barberie al quartiere Trieste, raggiunse a piedi, partendo dalla Giordania e attraversando 900 km di deserto, la capitale irachena. Fu quello un gesto altamente simbolico, una corsa per protestare contro l'embargo e dimostrare al tempo stesso che il linguaggio dello sport può essere talvolta un linguaggio di pace, di solidarietà. «Il deserto iracheno è una infinita distesa di sabbia; quello della Giordania, invece, è un deserto di pietre, sembra di saltare su un'eruzione di vulcano esplosa milioni d'anni fa - racconta al manifesto Papaluca - ogni giorno facevo quaranta chilometri, e questo per ventisei giorni, con un atemperatura che raggiungeva nel suo momento più alto i 45/50 gradi. Bevevo quotidianamente 10-12 litri d'acqua: quando sono tornato a Roma ero completamente disidratato. Sono stato tre notti in ospedale per una carenza di sali minerali: la scorta era finita ed era impossibile procurarseli in Iraq.

Ha mai avuto paura?

Paura? No: ero protetto da una scorta militare e questo mi dava fastidio. Io non pensavo di essere portatore di un messaggio politico, a questo ho pensato solo dopo. Badavo allo spirito del messaggio, volevo sensibilizzare le coscienze. Il regime voleva che io arrivassi il 28 aprile, perché è il giorno del compleanno di Saddam: prima di arrivare a Baghdad, ho minacciato di fermarmi perché non volevo che ci fossero le bandiere del partito Baas. Gli ho detto che io non correvo per nessuna bandiera, nemmeno per quella italiana, una nazione che aveva deciso di partecipare all'embargo.

Prima di questa impresa sei stato anche altrove: hai percorso 3000 km da Mosca a Roma in occasione del giubileo...

E' stato un evento molto seguito dai mass-media, al contrario della corsa nel deserto iracheno. Ho fatto tuttavia molte maratone nella mia vita: sono stato in Australia, sulla Muraglia cinese, in Amazzonia, in Perù. Il mio limite è intorno ai due minuti e 45 secondi: ma io non faccio le maratone per star bene fisicamente o per migliorare il mio personale. Io corro per mandare un messaggio, corro per qualcuno e corro per qualcosa, e questo mi da la forza per continuare. Quando devi fare tanti chilometri ti spaventi e ci sono momenti che pensi di mollare. Se non hai delle motivazioni molto forti, prima o poi molli: in qualche modo credo che sia tutta una questione di testa.

Quando hai deciso di cominciare a correre?

Nel 1990, dodici anni fa. Avevo avuto un incidente al ginocchio, giocando a pallone. Mi hanno operato otto volte, l'ultima in Svizzera: il dottore mi disse che avrei rischiato di zoppicare per il resto della mia vita. Ho cominciato perché un fisioterapista me l'ha suggerito: solo successivamente ho pensato che avrei potuto dedicare questa mia passione per «inviare messaggi». Lo si può fare scrivendo, o facendo musica, io lo faccio nell'unico modo in cui sono capace. Non sono un politico, di mestiere faccio il barbiere.

Ogni volta che entravi in un villaggio iracheno o che passavi per una città che tipo di accoglienza ricevevi?

I ragazzi si univano a me, correvano insieme a me; spesso chi si avvicinava mi dava delle lettere, scritte in inglese, nelle quali venivano raccontate le loro condizioni di vita. Io ero un testimone, io potevo vedere. Quando sono stato all'ospedale di Baghdad mi sono accorto che i carrelli dei medicinali erano vuoti: è stato come entrare in un alimentari e non trovare nulla da mangiare. I bambini che ho incontrato il primo anno, l'anno dopo non c'erano più: i più piccoli si ammalano di leucemia, un cancro dovuto all'uranio impoverito. Ho ancora negli occhi il ricordo di una bambina che tremava per la febbre: un conto è sapere, un conto è vedere.

Tu stesso hai detto che le strade esistono, bisogna avere solo il coraggio di percorrerle. E' questo il significato di una manifestazione come «Vivicittà»?

Una strada c'è sempre, si può far finta, per puro calcolo, che non ci sia: io sono convinto che una soluzione si possa sempre trovare. E' questo d'altronde l'insegnamento dell'iniziativa dell'Uisp: dare vita a tutte le città, perché tutte le città, tutti gli abitanti delle città hanno diritto a vivere. Lo sport è come la musica, come l'arte, può commuovere, può unire, induce un senso di fratellanza. Ed è un modo per consegnare agli altri un messaggio positivo. Io ho fatto quest'anno la maratona di New York: anche se ci sono state parecchie defezioni - gli atleti avevano paura - mi sembrava giusto esserci. Il pubblico applaudiva, si sentiva che era una sorta di ringraziamento, aveva bisognao di una presenza esterna che comunicasse solidarietà. Per questo stesso motivo sarò a Baghdad: ogni volta ci torno per non dimenticare. Credevo che non riuscissero ad organizzarla quest'anno, con la terza guerra del golfo che si dice essere alle porte. Le persone che mi stanno vicino mi dicono: «ma che sei matto, dove vai?». Nei momenti più difficili, credo che quello che conti sia il messaggio che uno vuole esprimere.