il manifesto - 30 Marzo 2002
Un clandestino a sinistra
Senza pace Il consumo come motore di un conflitto
che viene riportato alla sua dimensione materiale. Senza nulla concedere
all'orizzonte troppo vago dell' etica
Trasgressioni Iperboli, gusto spiccato per la provocazione e azzardo analitico
nell'ultimo libro di Massimo Ilardi, «In nome della strada. Libertà e
violenza». Edito da Meltemi
ANDREA COLOMBO
Con tutte le sue iperboli e il gusto troppo spiccato
per la provocazione, Massimo Ilardi è e resta un antidoto. Contro una
sinistra che non s'eccita mai tanto come in occasione delle encicliche
papali, contro il francescanesimo che spunta nelle sedi più impensate,
contro una visione del conflitto che è sempre più etica e sempre meno
materiale. Ilardi non corre di questi rischi. Nel suo ultimo libro, In
nome della strada. Libertà e violenza (Meltemi, 2001, pp. 143, euro
12,00) batte e ribatte a volontà su due temi riproposti per via di confutazioni
successive. Primo. Il conflitto endemico, nelle società contemporanee,
è basato tutto sullo scarto tra desiderio illimitato di consumo e limitata
possibilità di accedere alle merci, materiali o meno che esse siano. Osservata
da questa angolazione, la pace sociale dell'ultimo ventennio si rivela
invece costellata da una molteplicità di ribellioni fulminee e violente:
divampano all'improvviso e altrettanto repentinamente si spengono, solo
per riesplodere a migliaia di chilometri di distanza. Secondo. Non c'è
altra libertà se non quella, tutta «negativa», dalle necessità, dagli
obblighi, dalle costrizioni. Tutte le altre dissertazioni su una fantomatica
libertà solidale, costruttiva, capace di affermarsi grazie all'equilibrio
tra pulsioni individuali e bene comune sono destinate a infrangersi contro
una realtà sociale composta da individualità atomizzate, insofferenti
di qualsiasi limite o regolazione, men che mai progettuale.
Alla figura chiave del «migrante», considerata da una parte del pensiero
radicale come quella più atta a riassumere i tratti della nuova forza
lavoro, Ilardi contrappone dunque quella del «clandestino». «Nel nostro
immaginario - scrive - i clandestini sono ciò che vorremmo essere in quanto
liberi (trasgressori e illegali) e non possiamo essere. La terrificante
forza dei clandestini è riposta nella certezza della necessità che li
spinge ad agire e a rispondere in nome non di una appartenenza che hanno
abbandonato, ma di una domanda di libertà che non è più connessa alla
comunità».
Le conseguenza prima di questi due assunti è chiara: «Punto rilevante
della formazione di una soggettività non è più la produzione ma il consumo,
non è più la politica ma il conflitto: una soggettività forte, materialmente
formata e capace di una globalità uguale a quella del processo che la
genera, ma politicamente debole». Va aggiunto che di questa debolezza,
Ilardi certo non si rammarica. La considera al contrario condizione fondante
dell'emergere di una soggettività realmente libera.
Qualsiasi valutazione se ne possa dare nel complesso, alcuni meriti dell'azzardo
analitico di Massimo Ilardi saltano agli occhi. Riporta i conflitti, già
dispiegati o latenti, alla loro dimensione reale: dall'orizzonte vago
della contrapposizione etica li ricolloca nel quadro di un braccio di
ferro per la possibilità di accedere alla ricchezza e per l'affermazione
immediata della propria libertà. Restituisce al consumo il ruolo centrale
e dominante, ordinatore in più sensi, che gli spetta all'interno del processo
produttivo contemporaneo.
Senza scomodare inutili moralismi, i limiti dell'impianto sono a loro
volta evidenti, una volta assodato che l'autore mantiene un interesse
forte per lo sviluppo di un antagonismo sociale e non vuole limitarsi
a descrivere l'esistente. Ilardi porta alle estreme conseguenze la trasformazione
che ha fatto seguito al declino dell'edificio fordista per quanto riguarda
i soggetti sociali portatori dell'istanza conflittuale. Ne prescinde invece
totalmente al momento di misurarsi col dominio, con le modifiche dei suoi
interessi, delle sue finalità, delle sue modalità di controllo. E' quantomeno
discutibile che il potere abbia ancora interesse nel controllo capillare
e panottico, incrinato e messo in forse dalla figura ideale del «clandestino».
E' al contrario probabile che l'esistenza di vaste aree spaziali di illegalismo
e mancanza di controllo siano invece funzionali alle strategie anche aziendali
dell'industria post-fordista, purché profilatticamente isolate dalle zone
«per bene» della metropoli. Se è vero, come segnala Ilardi, che la microcriminalità
è la bestia nera dei governi occidentali, è anche vero che lo diventa
quando varca i confini delle aree ghettizzate per turbare la pace dei
quartieri residenziali.
La stessa fine delle appartenenze andrebbe indagata ulteriormente. Nell'impianto
di Ilardi questa non rappresenta infatti un elemento fra i tanti, ma la
sola vera pietra angolare. E' dalla dissoluzione delle appartenenze, spaziali
e sociali, che deriva la malattia della politica, per l'autore terminale.
Non che ci siano dubbi sulla scomparsa delle appartenenze comunitarie
classiche. Il problema è che, sempre più spesso, nella dimensione segnata
dal globalismo e dalle istituzioni sovranazionali, compaiono appartenenze
di ritorno. Fittizie, nate proprio dallo sradicamento, a volte grottesche
e tuttavia potenti. Lo prova l'ondata di micronazionalismi (spesso bellicosi)
a cui assistiamo da oltre un decennio.
Sono ipoteche che pesano su tutti i lavori di Ilardi, su tutta la sua
teoria estrema della metropoli. In questo libro, però, l'autore sottopone
a parziale rettifica alcune delle sue affermazioni precedenti, in particolare
quelle sulla metropoli come luogo della massima libertà spaziale, del
movimento senza barriere né confini. «Come la mettiamo - scrive ora -
quando la metropoli si presenta come uno spazio chiuso e sorvegliato?
O quando etnie, fazioni, bande si scontrano rivendicando la propria identità
e il proprio territorio d'appartenenza?» Ed è probabilmente proprio nel
confronto fra i dati che l'autore puntualmente coglie e quelli che invece
li contraddicono (la metropoli come «spazio chiuso e sorvegliato», il
ritorno delle appartenenze in forme assurde ma non per questo ridicole)
che vanno ricercate le risposte alle domande che il lavoro di Ilardi pone.
Dalla risposta dipende l'individuazione di un antagonismo che ritenga
possibile, non un altro mondo, ma un altro modo di vivere in questo.
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