Tutti i colori del mondo nel lavoro
Immigrati in ogni spezzone di corteo. Cresce l'integrazione e la richiesta dei diritti politici
FRANCESCO PICCIONI
Per il lavoro, certo. Ma quando ci si trova a lavorare fianco a fianco e ci sembra di essere in una foto da spot «multicolore», è difficile contenere la questione dei diritti al puro rapporto capitale-lavoro. E dilaga a tutto lo spettro di problemi che questo governo prova a tagliare con l'accetta, sperimentando sui più deboli condizioni che vorrebbe poi imporre a tutti. E i lavoratori extracomunitari sono senz'altro i più deboli. Tanti, ovviamente. «Al nord ci siamo solo noi in fabbriche intere», racconta uno che più nero non si può. E si tratta spesso di operai assunti a tempo indeterminato, a dimostrazione del fatto che «se funzionano» nessun imprenditore è disposto a lasciarsi scappare lavoratori attratti da condizioni migliori. «La legge Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro; chi viene licenziato viene anche espulso. Senza l'art. 18 si rischia l'espulsione, magari dopo 5 o 10 anni di lavoro in Italia».

Molti di più sono naturalmente quelli che vivono nella precarietà lavorativa più assoluta. E tanti di questi - interinali o temporanei - hanno preferito arrivare insieme al movimento «no global», che «ci è stato molto vicino». Ci sono le associazioni storiche dell'immigrazione, come il movimento «3 febbraio» o la Lega antirazzista di Venezia. Ci sono camion con sopra soltanto coloured, e da cui gli oratori parlano nelle loro lingue originali. Gruppi numerosissimi, ad esempio da Brescia, arrivano invece completamente rivestiti di gadget con il simbolo della Cgil. Si capisce al volo che funziona anche come simbolo identitario, un modo per dire «siamo anche noi parte di questa comunità, di questo paese».

Il colpo d'occhio conferma la mutazione in corso, inarrestabile. Non c'è spezzone di categoria - tranne i pensionati, ovviamente - che non abbia i suoi immigrati tranquillamente mescolati agli «indigeni»; tra i metalmeccanici come tra gli studenti, tra gli agricoltori e gli alimentaristi. Segno di una consuetudine e di un'integrazione ormai avvenuta, che rende un ricordo dei «tempi duri» la necessità di organizzarsi in quanto extracomunitari. Da qui sale anche, forte e chiara, la richiesta del diritto di voto, a completare il percorso della cittadinanza effettiva.

Quelli di più recente immigrazione girano in gruppi, ma sfruttano anche questa occasione per conoscere meglio il paese che ora abitano. Come quel ragazzo del Bangladesh che passando davanti al Colosseo, provava a indovinarne la funzione originaria, fino a trovare il coraggio di chiedere a una ragazza italiana «E' un cimitero?». In effetti, si potrebbe rispondere che era il luogo dove la «competitività tra gli schiavi» raggiungeva le vette della spettacolarità. Ma dove la vita si accorciava di molto.