16 Marzo 2002
 
 
Se il diritto finisce in trincea
SALVATORE SENESE

Confrontarsi, oggi, con la percezione che una larga parte del mondo ha del terrorismo internazionale, significa confrontarsi col problema dell'universalità dei diritti umani. Leggendo un lungo articolo di Terzani sul Corriere della sera (31 ottobre 2001), si rimane colpiti dalle due umanità completamente diverse che la corrispondenza lascia scorgere: da una parte, la nostra umanità; dall'altra, l'umanità dei villaggi pashtun descritti da Terzani, dei quali egli racconta il modo di sentire, distante anni luce dal nostro modo di sentire, e mostra la semplicità, l'ingenuità, l'ignoranza ed il furore semplificatorio ma anche il peso enormemente più lieve che le loro sofferenze o la loro morte hanno, nel nostro modo di sentire, rispetto alle sofferenze di quanti, pur da noi distanti migliaia di chilometri, partecipano tuttavia della nostra civiltà. inquietante questa magistrale corrispondenza, perché fa sentire in crisi il fondamento stesso dei diritti umani, e cioè il sentimento di un'eguaglianza di fondo tra tutti gli esseri umani al di là di ogni differenza di cultura, razza, lingua, religione. Quel sentimento di eguaglianza che, agli inizi della modernità, Hobbes - il teorico dello Stato - pone a base delle sue elaborazioni, fondandolo sulla comune, insopprimibile, fragilità della condizione umana di ciascuno, del potente come dell'umile... Su questo sentimento di eguaglianza si radica l'universalità dei diritti umani. La grande conquista della seconda metà del Ventesimo secolo è stata l'accettazione non più soltanto etica ma giuridica dell'universalità, che ne ha fatto la norma fondante delle relazioni pubbliche tra gli esseri umani, sul piano interno come su quello internazionale. Oggi sembra che le trasformazioni intervenute nella realtà del mondo mettano in discussione lo stesso fondamento antropologico di tale universalità. Nell'epoca della globalizzazione, la divaricazione della condizione umana appare forse la più forte che sia mai esistita, più forte di quanto potesse essere all'epoca dei viaggi di Marco Polo. vero questo? In una sede come questa posso avanzare questo tipo di dubbio: è vero? E se è vero, è qualcosa che ci interessa?

E la guerra come entra in tutto ciò? Credo che la ragione profonda per cui nella filosofia della Carta del Nazioni Unite - distinguerei la Carta, le Nazioni Unite come ordinamento, e le Nazioni Unite come organizzazione che concretamente opera - s'istituisce il tabù della guerra, sia sintetizzabile in ciò, che oggi non é più possibile riportare la guerra all'ordine razionale, secondo la geniale formula di Clausewitz che, quasi due secoli orsono, designava la guerra come la prosecuzione della politica con altri mezzi. Quella formula riecheggia, consapevolmente o meno, nelle dichiarazioni di quanti, con sofferenza magari, s'ingegnano oggi a richiamare la guerra nell'universo delle scelte politiche possibili o semplicemente sensate. Ma se quella formula aveva una sua razionalità agli inizi dell'Ottocento, essa non ha più senso oggi. E ciò per due ragioni: la prima è che, mentre la politica è divenuta estremamente difficile, molto più difficile di quanto potesse essere all'epoca del concerto delle grandi potenze su quel lembo del mondo che è l'Europa, la guerra ha, dal canto suo, assunto una fortissima valenza distruttiva e totalizzante che la porta a subordinare tutto all'obiettivo della vittoria e quindi inaridisce la possibilità di riflettere, di affrontare la complessità, di fare politica e soprattutto politica democratica. Guerra, infatti, significa segreto, significa quindi espropriazione della democrazia, significa sottrazione all'opinione pubblica dei termini reali delle questioni decisive. Ma c'è di più, guerra significa crisi della democrazia anche nella sua dimensione sostanziale, di protezione dei diritti fondamentali, giacché la guerra, proprio per questo suo carattere totalizzante, esalta il principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi", tutti i mezzi; dunque, quando v'è guerra, non vi sono più beni inviolabili a fronte dell'obiettivo fondamentale che è la vittoria, la debellatio del nemico.
Non è un caso che la positivizzazione dell'universalità dei diritti umani si compia dopo la seconda guerra mondiale e nel medesimo contesto di valori che sancisce l'eguaglianza di tutti gli esseri umani e di tutti i popoli e la messa al bando della guerra. Il fallimento della Società delle Nazioni, illusorio tentativo di creare un meccanismo che potesse evitare il ripetersi degli orrori del primo conflitto mondiale, ha le proprie cause anche nel tarlo ideale che minava quella costruzione, e cioè il rifiuto del principio di eguaglianza, invano proposto (e in una forma molto timida) dal rappresentante del Giappone e sdegnosamente rifiutato dalla superba Inghilterra (su ciò A. Cassese, in Aa.vv., Un pianeta senza governo, Edizioni associate, 1988). I grandi balzi in avanti della civiltà umana non si possono fondare sull'ipocrisia e sul mantenimento dei privilegi. E proprio con la mente rivolta al fallimento della Società delle Nazioni che i redattori della Carta delle NazioniUnite infransero alcuni secolari tabù e realizzarono una vera e propria rivoluzione copernicana nell'ambito delle relazioni pubbliche interne e internazionali.

E' su questa rivoluzione copernicana, su questo nuovo diritto internazionale, e sui processi storici e le connesse trasformazioni prodottesi nella coscienza e nell'immaginario collettivo di grandi masse, che prende forma, si fonda e si sviluppa la tutela internazionale dei diritti umani. La quale rappresenta certo una grande novità, un contrassegno d'epoca, un'acquisizione della seconda metà del secolo direttamente collegata alle grandi tragedie storiche della prima metà. In quanto tale, la sua origine e la sua ispirazione si collocano, non diversamente da quelle dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel vivo dello scontro e della mobilitazione, anche ideale, contro il nazifascismo e dunque all'interno delle passioni e della tensione, anche etica, che quello scontro implicava ed alla quale gli Alleati facevano appello. Così come in quegli anni furono pensati e annunciati l'Onu e i tribunali di Norimberga e di Tokio, allo stesso modo maturò l'idea che la protezione della dignità umana a fronte d'insopportabili aggressioni dovesse far parte di un nuovo ordine internazionale capace di parlare all'immaginario collettivo dei popoli, di rispondere alle speranze sollevate dalla vittoria, di dare slancio alla ricostruzione morale e materiale offrendo una prospettiva mondiale all'idea di progresso, comune ad entrambe le ideologie dei vincitori ed offuscata dagli orrori del nazifascismo e della guerra. Il preambolo della Carta delle Nazioni Unite esprime, in apertura di pagina, questo nesso e questa comune origine, enunciando tre valori giuridici universali, tutti sovrastatuali e tra loro strettamente intrecciati: il valore della pace, la tutela internazionale dei diritti fondamentali, l'eguaglianza degli uomini e dei popoli.
Come ha scritto di recente Leonardo Paggi, il "tema riassuntivo", che scaturisce dalle rovine della seconda guerra mondiale, è quello del diritto alla vita; la sua centralità dà conto della rivisitazione dei tradizionali diritti civili e politici, del loro intrecciarsi con i diritti economici e sociali, della nozione stessa d'indivisibilità dei diritti umani (e cioè dell'inseparabilità dei tradizionali diritti civili e politici dai diritti sociali ed economici), in una parola della prospettiva espansiva che affida l'ordine, piuttosto che ad una repressione dei desideri (tipica dell'individualismo proprietario), ad una loro progressiva soddisfazione su scala planetaria. Se la biopolitica, secondo Foucault, significa la costituzione di un nuovo tipo di potere che trae la propria legittimazione dalla manipolazione della vita, con la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, alla biopolitica negativa e selvaggia del nazismo si sostituisce una biopolitica di segno opposto, nella quale il potere cerca la propria legittimazione nell'espansione della vita.
E' questa nuova e rivoluzionaria biopolitica che la riabilitazione della guerra mette radicalmente in crisi, minandone le basi, e cioè l'eguaglianza e la pari dignità degli esseri umani, e scardinandone la proiezione giuridica, e cioè l'universalità dei diritti umani.
La conferma viene proprio dagli Stati Uniti. Mi riferisco, innanzitutto, alle normative speciali sugli imputati di terrorismo di nazionalità non americana: sulla base del Patriot Act del 25 ottobre 2001, il presidente Bush ha emanato un'ordinanza in data 13 novembre 2001 che assegna alla competenza di tribunali militari d'eccezione, secondo insindacabile decisione del presidente, la cognizione delle accuse elevate a carico di tali soggetti, disponendo che il processo può svolgersi in segreto, sulla base di prove che in parte possono rimanere segrete - quanto alle fonti - per lo stesso accusato, cui viene peraltro fortemente limitata la facoltà di scelta dei difensori, e senza appello (Th. Klein-Brockhoff, Sowietische "Schleussichkeit", in Die Zeit 22 novembre 2001; per ulteriori misure in tema di detenzione preventiva e intercettazioni telefoniche, M. Ratner, Les libertés sacrifiées sur l'autel de la guerre, in Le Monde diplomatique, novembre 2001). Piuttosto che indugiare sulle flagranti violazioni di norme inderogabili di protezione internazionale dei diritti umani, che tali interventi implicano e che ha indotto il Parlamento europeo a rifiutare, il 13 dicembre 2001, una cooperazione giudiziaria con gli Stati Uniti, mette conto rilevare come tale normativa sancisca, in materia di diritti fondamentali, una frattura tra cittadini americani e stranieri, rompendo il fondamentale principio del "rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione" sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
Mi riferisco, poi, al dibattito di cui dà conto la libera stampa degli Stati Uniti, ove può leggersi che al Ministero della Giustizia ed all'Fbi si comincia a sussurrare che le garanzie fondamentali potrebbero essere sospese almeno temporaneamente e almeno quando si tratti di ottenere informazioni per salvare delle vite: ad esempio, David Cole, professore di diritto all'università di Georgetown, dice che l'utilizzazione della forza (soave eufemismo per alludere alla tortura) potrebbe essere giustificata dal fine di sventare un attacco imminente. Dal canto suo, Robert Jervis, specialista di lotta al terrorismo all'università Columbia, precisa che, perché si possano superare certe barriere, occorre avere fondati motivi di supporre che la persona che subirà l'uso della forza disponga di informazioni vitali per superare o sventare un attentato.

Marvin Cetron, autore del rapporto "terrorismo 2000" per conto dei servizi segreti Usa, afferma che "contro i terroristi ogni mezzo è lecito" (Corriere della Sera, 24 settembre 2001), mentre Alan Dershowitz, uno degli avvocati più noti d'America, sostiene la legittimità della tortura per evitare altre stragi (Corriere della sera, 1 febbraio 2002). Questo argomentare richiama alla mente le tesi che, oltre quarant'anni fa (adesso per fortuna le ha ripudiate), sosteneva il generale francese Massu a proposito della tortura in Algeria. Mi riferisco, infine, alla vicenda dei prigionieri di Al Qaeda rinchiusi nelle gabbie di Guantanamo in condizioni inumane, denunciate dalla stampa internazionale (Le Monde, 10 gennaio 2002 e 23 gennaio 2002 ove si dà conto anche delle critiche di prestigiose associazioni di difesa dei diritti umani statunitensi e della posizione di J. Solana, alto rappresentante dell'Unione europea per la politica estera e la sicurezza, che reclama l'applicazione delle convenzioni di Ginevra; e, ancora, sempre su Le Monde, T. Waite, 26 gennaio 2002 e M. Delmas-Marty, 30 gennaio 2002).
Qui intersechiamo la seconda, e più forte, ragione che rende oggi inutilizzabile la concezione di Clausewitz, e cioè l'irriducibile incompatibilità della guerra con i diritti umani e con il loro presupposto etico-politico costituito dall'eguale valore di ogni essere umano. Infatti, l'incoercibile distruttività delle guerre moderne, unita al loro carattere totalizzante, fa sì che, per ogni dieci vittime che la guerra provoca, nove siano civili innocenti. Questi innocenti hanno, in linea di principio, lo stesso valore di quegli innocenti in difesa dei quali si dice di esser costretti a fare la guerra, la quale però - di fatto - nega questa pari dignità e atrocemente discrimina tra innocenti. Il presupposto dell'universalità, e cioè la comune fragilità della condizione umana, è posto in crisi nel momento in cui la vita di una categoria d'innocenti viene difesa col sacrificio della vita di un'altra categoria, le due categorie essendo distinte solo in virtù del dato assolutamente accidentale del paese in cui vivono.
Il decennio 1990/2000, che l'Onu aveva proclamato decennio del diritto internazionale, si è aperto con una guerra in nome del diritto (la guerra del Golfo) e si è chiuso con una guerra in nome dei diritti umani (la guerra del Kosovo), così preparando la guerra al terrorismo che del diritto e dei diritti umani fa strame.
I giuristi non sono innocenti.