05 Marzo 2002
 
 
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Sguardi di ragazze del Mediterraneo
Nona edizione del Cinema delle donne di Torino dedicato alle registe del nord Africa e del Medio oriente. Sugli schermi la prigionia di una ragazzina in Libano e le prodezze calcistiche delle squadre femminili algerine
SILVANA SILVESTRI - TORINO

Alla sua nona edizione (1-9 marzo) il festival internazionale Cinema delle donne di Torino offre un notevole panorama che punta quest'anno l'attenzione sui paesi del nord Africa e Medio Oriente, zone in cui il velo è diventato di secondaria importanza rispetto alla sopravvivenza. Organizzato dall'associazione culturale la Mo-viola, diretto da Clara Rivalta, presenta 50 opere in concorso (12 film, 12 corti, 16 documentari) con proiezioni dedicate anche alle scuole e una giuria di studentesse e studenti delle scuole superiori (il sito realizzato da Laura Cardia dove si possono trovare anche le passate edizioni è: utenti.tripod.it/festivalcinemadonne).
Il livello dei film è ormai talmente sperimentato che le tematiche più complesse del dibattito del femminismo contemporaneo trova posto nei film per il grande pubblico, oggi soprattutto per quanto riguarda la definizione di genere e il punto di vista maschile. Sono film che a volte affrontano situazioni ancora poco chiare, ma con una nettezza di linguaggio e quasi sempre un umorismo che sa rendere conto delle diverse sfaccettature della realtà. Si è già vista la destrutturazione del macho in La donna è una cosa davvero incredibile (A Woman's a helluva thing) di Karen Leigh Hopkins, attrice e autrice di western, che racconta con toni spesso farseschi come un direttore di una rivista per soli uomini vede frantumarsi i suoi stereotipi. Fanny Ardant ha un incontro d'amore con un travestito tunisino in Change moi la vie (Cambiami la vita) di Liria Bégéja, padre albanese e madre francese (il suo esordio era stato Avril brisé, da Kadaré), una storia di ruoli e dell'impossibilità di assumerli, tra vita reale e vita di palcoscenico, melodramma spesso sopra le righe. Ha già una distribuzione italiana My First Mister (Il mio primo uomo) di Christine Lathi, lo distribuirà Media Film, esordio di un'attrice hollywoodiana dalla carriera consolidata, incontro tra due persone che si riconoscono attraverso le paure che provano, una adolescente metallara e un commerciante di abiti classici al centro commerciale. Si passa dal linguaggio esteriore e simbolico degli abiti per andare molto più a fondo nei sentimenti. Gli abiti, gli abbellimenti, le tradizioni sono al centro dei documentari di Izza Genini nata in Marocco e residente a Parigi. infatti autrice di 11 documentari sulle radici andaluse delle sonorità berbere (raccolti sotto il titolo di "Maroc corps et âme") dove emerge il canto codificato del mahlun in cui la parola ha un ruolo più forte della musica, una poesia cantata che appartiene alla società marocchina, ma che non si può restringere a un territorio. Ma è sull'attualità che si vedono in questi anni i lavori più forti: è stato come un messaggio di forza attraverso il Mediterraneo il sorriso e il coraggio di una militante libanese che racconta la storia della sua prigionia e delle torture che ha subito per anni in Souha - Survivre à l'enfer di Randa Chahal Sabbag.
Souha Béchara, a 17 anni, dopo un fallito tentativo di assassinare il capo dell'esercito del Libano meridionale, è stata arrestata e ha trascorso dieci anni in isolamento nella prigione di Khiam di cui i libanesi che collaboravano con Israele negavano l'esistenza. Liberata grazie a una campagna di solidarietà internazionale nel `98 la giovane donna racconta di come percorreva ogni giorno 4 chilometri e mezzo nella cella di un metro e mezzo di lunghezza per uno e mezzo di larghezza, di come si arrampicava sul muro per guardare fuori o chi andava e veniva, e come faceva a riconoscere i collaborazionisti, degli slogan scritti sui muri "che ci davano forza" e poi racconta delle torture dei fili elettrici sul seno ("ma erano persone per bene - racconta con ironia - non ci guardavano"). Quando l'intervistatrice chiede di raccontare le torture ricordiamo quello che diceva Bechis, che non potrebbe mai fare una domanda così diretta su cose tanto personali, ma vediamo che nel racconto della donna non c'è spazio per l'orrore, ma solo per la sua azione politica. Dice a una bambina andata a visitare la prigione dopo la sua chiusura: "Non bisogna piangere, noi siamo forti, abbiamo fatto la nazione". Settecento donne sono passate per quelle celle, centinaia sono morte, ma infine il paese è libero.
Dall'Algeria ecco scendere in campo due delle 25 squadre di calcio femminile del paese e anche la prima allenatrice con regolare patentino. Una provocazione per gli integralisti? No, una semplice affermazione di libertà per le ragazze algerine secondo il semplice assunto: "amo dio, ma anche il calcio". Les crampons de la liberté (gli scarpini della libertà) di Veronique Taveau è il reportage dell'incontro chiave del Jsk di Kabila contro il Kouba di Algeri dove una centrocampista da tenere d'occhio che i tifosi chiamano Del Piero, ha fatto nel campionato scorso tali meraviglie da superare anche il fatto che, giocando, si vedono ben tre centimetri di pelle. Nessuna donna sugli spalti, ma a guardare bene, qualcuna comincia ad arrivare.


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