Sguardi di ragazze
del Mediterraneo
Nona edizione del Cinema
delle donne di Torino dedicato
alle registe del nord Africa
e del Medio oriente.
Sugli schermi la prigionia
di una ragazzina in Libano
e le prodezze calcistiche
delle squadre femminili algerine
SILVANA SILVESTRI -
TORINO
Alla sua nona edizione (1-9 marzo) il festival internazionale
Cinema delle donne di Torino offre un notevole panorama che punta
quest'anno l'attenzione sui paesi del nord Africa e Medio
Oriente, zone in cui il velo è diventato di secondaria importanza
rispetto alla sopravvivenza. Organizzato dall'associazione
culturale la Mo-viola, diretto da Clara Rivalta, presenta 50
opere in concorso (12 film, 12 corti, 16 documentari) con
proiezioni dedicate anche alle scuole e una giuria di studentesse
e studenti delle scuole superiori (il sito realizzato da Laura
Cardia dove si possono trovare anche le passate edizioni è:
utenti.tripod.it/festivalcinemadonne).
Il livello dei film è ormai talmente sperimentato che le
tematiche più complesse del dibattito del femminismo
contemporaneo trova posto nei film per il grande pubblico, oggi
soprattutto per quanto riguarda la definizione di genere e il
punto di vista maschile. Sono film che a volte affrontano
situazioni ancora poco chiare, ma con una nettezza di linguaggio
e quasi sempre un umorismo che sa rendere conto delle diverse
sfaccettature della realtà. Si è già vista la destrutturazione
del macho in La donna è una cosa davvero incredibile (A
Woman's a helluva thing) di Karen Leigh Hopkins, attrice e
autrice di western, che racconta con toni spesso farseschi come
un direttore di una rivista per soli uomini vede frantumarsi i
suoi stereotipi. Fanny Ardant ha un incontro d'amore con un
travestito tunisino in Change moi la vie (Cambiami la
vita) di Liria Bégéja, padre albanese e madre francese (il suo
esordio era stato Avril brisé, da Kadaré), una storia di
ruoli e dell'impossibilità di assumerli, tra vita reale e vita di
palcoscenico, melodramma spesso sopra le righe. Ha già una
distribuzione italiana My First Mister (Il mio primo
uomo) di Christine Lathi, lo distribuirà Media Film, esordio di
un'attrice hollywoodiana dalla carriera consolidata, incontro tra
due persone che si riconoscono attraverso le paure che provano,
una adolescente metallara e un commerciante di abiti classici al
centro commerciale. Si passa dal linguaggio esteriore e simbolico
degli abiti per andare molto più a fondo nei sentimenti. Gli
abiti, gli abbellimenti, le tradizioni sono al centro dei
documentari di Izza Genini nata in Marocco e residente a Parigi.
infatti autrice di 11 documentari sulle radici andaluse delle
sonorità berbere (raccolti sotto il titolo di "Maroc corps et
âme") dove emerge il canto codificato del mahlun in cui la parola
ha un ruolo più forte della musica, una poesia cantata che
appartiene alla società marocchina, ma che non si può restringere
a un territorio. Ma è sull'attualità che si vedono in questi anni
i lavori più forti: è stato come un messaggio di forza attraverso
il Mediterraneo il sorriso e il coraggio di una militante
libanese che racconta la storia della sua prigionia e delle
torture che ha subito per anni in Souha - Survivre à
l'enfer di Randa Chahal Sabbag.
Souha Béchara, a 17 anni, dopo un fallito tentativo di
assassinare il capo dell'esercito del Libano meridionale, è stata
arrestata e ha trascorso dieci anni in isolamento nella prigione
di Khiam di cui i libanesi che collaboravano con Israele negavano
l'esistenza. Liberata grazie a una campagna di solidarietà
internazionale nel `98 la giovane donna racconta di come
percorreva ogni giorno 4 chilometri e mezzo nella cella di un
metro e mezzo di lunghezza per uno e mezzo di larghezza, di come
si arrampicava sul muro per guardare fuori o chi andava e veniva,
e come faceva a riconoscere i collaborazionisti, degli slogan
scritti sui muri "che ci davano forza" e poi racconta delle
torture dei fili elettrici sul seno ("ma erano persone per bene -
racconta con ironia - non ci guardavano"). Quando
l'intervistatrice chiede di raccontare le torture ricordiamo
quello che diceva Bechis, che non potrebbe mai fare una domanda
così diretta su cose tanto personali, ma vediamo che nel racconto
della donna non c'è spazio per l'orrore, ma solo per la sua
azione politica. Dice a una bambina andata a visitare la prigione
dopo la sua chiusura: "Non bisogna piangere, noi siamo forti,
abbiamo fatto la nazione". Settecento donne sono passate per
quelle celle, centinaia sono morte, ma infine il paese è libero.
Dall'Algeria ecco scendere in campo due delle 25 squadre di
calcio femminile del paese e anche la prima allenatrice con
regolare patentino. Una provocazione per gli integralisti? No,
una semplice affermazione di libertà per le ragazze algerine
secondo il semplice assunto: "amo dio, ma anche il calcio".
Les crampons de la liberté (gli scarpini della libertà)
di Veronique Taveau è il reportage dell'incontro chiave del Jsk
di Kabila contro il Kouba di Algeri dove una centrocampista da
tenere d'occhio che i tifosi chiamano Del Piero, ha fatto nel
campionato scorso tali meraviglie da superare anche il fatto che,
giocando, si vedono ben tre centimetri di pelle. Nessuna donna
sugli spalti, ma a guardare bene, qualcuna comincia ad
arrivare.
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