"Chiusi a
chiave" Yarl's Wood, parlano i superstiti dell'incendio
O. C.
- BEDFORD
Non hanno nomi i protagonisti di questa
storia. Ma hanno la voce rotta dalla rabbia, dalla tristezza,
da una sofferenza immensa. Devono rimanere invisibili perché
dopo essere riusciti a sfuggire alla persecuzione nei loro
paesi, rischiano la persecuzione anche in Gran Bretagna, il
paese dove hanno cercato rifugio, chiesto aiuto. Vengono dalla
Nigeria, dallo Zimbabwe, dal Kosovo, dalla Cina. Sono giovani
uomini e giovani donne, i volti scavati dalla sofferenza,
provati dall'odio e dalla repressione di regimi contro i quali
si sono battuti per un mondo diverso, più giusto. Parlano di
quello che è successo giovedì sera, quando Yarl's Wood è
andato in fiamme. Ma anche di quello che hanno dovuto
sopportare da quando, a novembre, il centro di "lusso", come
lo definisce la stampa britannica di destra, fiore
all'occhiello del governo Blair. "E' una prigione - dice un
giovane dello Zimbabwe - e chi viene rinchiuso lì dentro viene
trattato come un criminale. Ci sono telecamere a circuito
chiuso ovunque, ogni tuo movimento è controllato, spiato".
Andare dal medico interno significa per i detenuti "venire
prelevati dalla propria stanza da due guardie, ammanettati e
accompagnati sotto scorta in infermeria: bisogna attraversare
sette porte chiuse per arrivarci". Le stesse porte che i
vigili del fuoco ad un certo punto disperavano di riuscire ad
aprire o a sfondare, durante l'incendio: porte blindate, di
massima sicurezza. Dai centri di detenzione non si può uscire.
"Il contatto con l'esterno - dice una ragazza nigeriana - è
limitato, e non solo perché non è facile l'iter per le visite,
ma anche perché hai diritto ad una sola carta telefonica di
due sterline (seimila lire) alla settimana. E nemmeno tutte le
settimane. Figuriamoci come si può chiamare l'Africa con due
sterline". La posta, dicono tutti, viene consegnata con molto
ritardo: "Le guardie la aprono e la leggono - dice un altro
ragazzo anche lui nigeriano - così dobbiamo aspettare giorni
prima di ricevere magari comunicazioni importanti degli
avvocati". Già, perché contrariamente a quanto dichiarato dal
governo, la stragrande maggioranza dei detenuti di Yarl's Wood
non sono in attesa di rimpatrio. Per molti la procedura di
analisi della domanda di asilo non è nemmeno cominciata. Altri
sono in attesa del processo di appello. Qualcuno dopo aver
ottenuto l'asilo è rimasto comunque detenuto per due, tre
settimane, per i ritardi dell'Home Office. Emma Ginn era
per sua ammissione "non particolarmente politicizzata. Poi,
durante un viaggio in Germania, ricordo di aver letto un
manifesto che dava i nomi di tutte le persone immigrate morte
durante i rimpatri forzati. Era firmato dal comitato `nessuno
è illegale'. Quando sono tornata a Bedford - dice - ho
cominciato ad interessarmi dei centri di detenzione,
soprattutto dopo l'annuncio che a novembre dello scorso anno
sarebbe stato inaugurato proprio il centro di Yarl's Wood".
Emma Ginn, praticamente da sola, ha organizzato un seminario
sulla questione immigrazione al termine del quale (avevano
partecipato una cinquantina di persone) è riuscita "a
trascinare in questa impresa del comitato un altro paio di
persone". La prima uscita pubblica, tra l'ostilità dei
cittadini, ha attratto un centinaio di persone. "Poi abbiamo
cominciato con i volantinaggi e poi, dopo l'apertura del
centro, abbiamo cominciato con le visite ai detenuti.
Attraverso casi personali - dice - siamo diventati molto più
consapevoli di quanto razzista, ingiusto, discriminatorio e
illegale sia la detenzione degli asylum seekers".
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