22 Febbraio 2002
 
 
"Chiusi a chiave"
Yarl's Wood, parlano i superstiti dell'incendio
O. C. - BEDFORD

Non hanno nomi i protagonisti di questa storia. Ma hanno la voce rotta dalla rabbia, dalla tristezza, da una sofferenza immensa. Devono rimanere invisibili perché dopo essere riusciti a sfuggire alla persecuzione nei loro paesi, rischiano la persecuzione anche in Gran Bretagna, il paese dove hanno cercato rifugio, chiesto aiuto. Vengono dalla Nigeria, dallo Zimbabwe, dal Kosovo, dalla Cina. Sono giovani uomini e giovani donne, i volti scavati dalla sofferenza, provati dall'odio e dalla repressione di regimi contro i quali si sono battuti per un mondo diverso, più giusto. Parlano di quello che è successo giovedì sera, quando Yarl's Wood è andato in fiamme. Ma anche di quello che hanno dovuto sopportare da quando, a novembre, il centro di "lusso", come lo definisce la stampa britannica di destra, fiore all'occhiello del governo Blair.
"E' una prigione - dice un giovane dello Zimbabwe - e chi viene rinchiuso lì dentro viene trattato come un criminale. Ci sono telecamere a circuito chiuso ovunque, ogni tuo movimento è controllato, spiato". Andare dal medico interno significa per i detenuti "venire prelevati dalla propria stanza da due guardie, ammanettati e accompagnati sotto scorta in infermeria: bisogna attraversare sette porte chiuse per arrivarci". Le stesse porte che i vigili del fuoco ad un certo punto disperavano di riuscire ad aprire o a sfondare, durante l'incendio: porte blindate, di massima sicurezza. Dai centri di detenzione non si può uscire. "Il contatto con l'esterno - dice una ragazza nigeriana - è limitato, e non solo perché non è facile l'iter per le visite, ma anche perché hai diritto ad una sola carta telefonica di due sterline (seimila lire) alla settimana. E nemmeno tutte le settimane. Figuriamoci come si può chiamare l'Africa con due sterline". La posta, dicono tutti, viene consegnata con molto ritardo: "Le guardie la aprono e la leggono - dice un altro ragazzo anche lui nigeriano - così dobbiamo aspettare giorni prima di ricevere magari comunicazioni importanti degli avvocati". Già, perché contrariamente a quanto dichiarato dal governo, la stragrande maggioranza dei detenuti di Yarl's Wood non sono in attesa di rimpatrio. Per molti la procedura di analisi della domanda di asilo non è nemmeno cominciata. Altri sono in attesa del processo di appello. Qualcuno dopo aver ottenuto l'asilo è rimasto comunque detenuto per due, tre settimane, per i ritardi dell'Home Office.
Emma Ginn era per sua ammissione "non particolarmente politicizzata. Poi, durante un viaggio in Germania, ricordo di aver letto un manifesto che dava i nomi di tutte le persone immigrate morte durante i rimpatri forzati. Era firmato dal comitato `nessuno è illegale'. Quando sono tornata a Bedford - dice - ho cominciato ad interessarmi dei centri di detenzione, soprattutto dopo l'annuncio che a novembre dello scorso anno sarebbe stato inaugurato proprio il centro di Yarl's Wood". Emma Ginn, praticamente da sola, ha organizzato un seminario sulla questione immigrazione al termine del quale (avevano partecipato una cinquantina di persone) è riuscita "a trascinare in questa impresa del comitato un altro paio di persone". La prima uscita pubblica, tra l'ostilità dei cittadini, ha attratto un centinaio di persone. "Poi abbiamo cominciato con i volantinaggi e poi, dopo l'apertura del centro, abbiamo cominciato con le visite ai detenuti. Attraverso casi personali - dice - siamo diventati molto più consapevoli di quanto razzista, ingiusto, discriminatorio e illegale sia la detenzione degli asylum seekers".