I quattro ghetti della favela rom
Milano, viaggio nella bidonville di
via Barzaghi. In vista dello sgombero GIORGIO SALVETTI - MILANO
Facevo la barista in Romania e faccio la
barista anche qua", dice una donna orgogliosa. Una tettoia, un
tavolo di assi, un frigorifero appoggiato a una roulotte con
pitturata in vernice blu la scritta ambulatorio. "Ci vengono i
medici volontari qualche volta", spiega la donna. Per ora
serve da deposito di qualche cassa di birra. Subito fuori,
sotto un'altra tettoia, alcuni uomini giocano intorno ad un
improbabile tavolo da bigliardo. E' la piazza centrale di
una città, o meglio del quartiere rumeno del campo rom di via
Barzaghi. Una grande città di baracche e lamiere alla
periferia di Milano, una bidonville chiusa tra l'enorme
Cimitero Maggiore del Musocco e il muro della ferrovia. Una
città complessa, abitata da più di 1000 persone di quattro
etnie - kossovari, macedoni, bosniaci e rumeni - arrivate in
via Barzaghi in momenti diversi e da storie diverse. Ognuna
con il proprio campo e le proprie leggi. Quartieri vicini ma
ben distinti e separati. Alla divisione etnica si sovrappone
la separazione della legge tra chi ha i documenti in regola e
chi invece non li ha. Nei prossimi giorni il Comune di Milano
sposterà parte di questa città in un campo "attrezzato" in via
Novara: 45 container, poco più di 200 posti. Ci andranno i
kossovari che per la maggior parte (ma non tutti) hanno
ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiati di guerra, si
trasferirà anche qualche macedone, e gli altri? Nel bar del
campo rumeno - loro in via Novara non ci andranno - sono
giorni di grande discussione. E' stato annunciato che il
Comune vuole censirli. Gli uomini si chiedono che fare. Temono
che il censimento sia l'anticamera dell'espulsione per chi non
è in regola, temono che la comunità e le famiglie vengano
divise. "Io lavoro in una ditta di costruzione, molti
lavorono, tanti in nero, per questo non abbiamo il permesso di
soggiorno e poi anche se il capo del lavoro ci fa le carte in
questura appena sanno che siamo rom, sono problemi", dice uno
degli uomini mentre sua moglie mostra le foto della famiglia,
numerosissima, tanti bambini, alcune ragazze con l'abito da
sposa. Nessuno vuole che venga fatto il suo nome sul giornale,
"meglio di no". "Dicono che siamo sporchi, che viviamo in
mezzo ai topi, come se per noi fosse bello". Fuori dal
bar i bambini scorrazzano e inventano strani giochi con
quello che trovano in giro. Un carrello sgangherato, una
ruota. Ognitanto passa qualcuno con la radio ad alto volume.
Una musica indefinita, elettronica e zingara, copre il suono
perenne di un motorino dove un uomo versa regolarmente
benzina. E' il generatore che alimenta il frigo del
bar. "La luce ce l'hanno tolta, d'inverno andiamo a
dormire come le galline, tanto siamo come le galline, non vedi
in che pollaio viviamo". Come energia alternativa ci sono solo
i fornelli da campeggio e le candele e puntualmente qualche
roulotte va in fiamme, l'ultima la settimana scorsa. Nel campo
ovviamente non esiste un estintore. "Abbiamo chiesto queste
cose e invece ci volevano dare dei sacchi a pelo - interviene
un abitante del campo - ma che me ne faccio, non lo uso, e poi
la notte con mia moglie, ognuno nel suo sacco, ciao e
buonanotte?". Al centro della piazza, come un monumento,
anzi come una fontana, un gabbiotto perde acqua dal pavimento.
E' il bagno, l'unico bagno per cinquecento persone. L'unico
lusso del campo. Tutto intorno, ammassate le une alle altre ci
sono le baracche. Spesso per proseguire si passa per vicoli,
cunicoli, non più larghi di un metro. Le soluzioni per
inventarsi un tetto sotto cui dormire e per abbellire
la propia dimora sono tra le più fantasiose: roulottes con
tettoie di lamiere che fanno da patio, cartelloni pubblicitari
che servono da recizione. C'è chi vive dietro un brandello del
cartellone della pepsi. Non c'è lo spazio per un filo
d'erba, non c'è mai ombra e le stradine sono pavimentate con
pezzi di sedili o pietre perché quando piove diventino isole
su cui poter passare in mezzo al fango. Usciti da uno di
questi vicoli, in uno slargo, improvvisamente, spunta una
ruspa. Un altro monumento: il terrore dello sgombero e della
distruzione del campo o la speranza che qualcuno faccia dei
lavori per migliorare la situazione, magari il Comune. E
invece la ruspa è di uno dei rumeni, il padrone della ditta
dove lavora gliela presta e lui la usa per scavare i canali di
scolo del campo. Tutti hanno un motivo per restare. Gli uomini
perché lavorano, le donne per i bambini, molte sono incinte.
Un uomo ha una cicatrice che parte dal collo e arriva
all'ombelico: "mi hanno operato al cuore, nel mio paese queste
operazioni non le fanno". Accanto a lui una donna tiene una
bambina di pochi mesi rintontita dal sole e dal pianto. Quando
è nata, raccontano, il dottore (o chi per lui) le ha rotto una
caviglia. Usciti dal campo c'è uno spiazzo vuoto, pieno di
rottami. Sembra che qualcuno se ne sia appena andato. "Sono
quelli che hanno qualcosa da nascondere - ci spiegano - vista
la brutta aria che tira loro se ne sono già andati". Ma altri
sono fuggiti solo per paura. Il campo dei bosniaci è
semideserto, un vuoto impressionante dopo i vicoli dei rumeni.
Nel piazzale restano poche roulotte e una specie di gazebo
costruito con travetti di legno sotto cui è riunita tutta la
comunità. Anche qui si discute. Tra loro c'è Fabio Zerbini
dell'Associazione 3 febbraio che da anni si occupa dei
rom di via Barzaghi, specialemente dei rumeni e dei bosniaci.
"O il Comune sistema tutti o nessuno - spiega - in via Novara
ci andranno in pochi. Spostano per selezionare. Tra chi è
esculso, alcuni se ne vanno ma molti sono decisi a restare e
tanti rischiano l'espulsione, noi siamo dalla parte di chi il
permesso di soggiorno non ce l'ha. La legge separa le
famiglie, le comunità e le etnie creando una tristissima
guerra fra poveri". All'ingresso del campo kossovaro ci
accoglie uno di loro con il permesso di soggiorno in tasca,
parla a titolo personale, parole degne di un Borghezio: "Io
non lavoro perché non mi piace, è giusto che gli altri (che
non hanno i documenti) vengano espulsi, e poi bevono le birre,
lasciano in giro le lattine, che li rimandino a casa loro".
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