da "Il Manifesto"

05 Giugno 2001

A rota di razza

Questioni di Census. L'Istat americano insiste ad usare il concetto di "razza". E, anzi, intende certificare il livello di "percezione individuale dell'identità razziale". E le sei razze di partenza arrivano a diventare 63 diverse possibili combinazioni

MARCO D'ERAMO

Non c'è spettacolo più istruttivo delle tormentose ambasce in cui si dimenano gli statistici americani per sgrovigliare la matassa di definizioni razziali che loro stessi hanno fabbricato. Mano mano che giungono i risultati definitivi del censimento del 2000, il panorama razziale statunitense somiglia sempre più a un'allucinazione da Lsd. Soprattutto dopo gli ultimi mutamenti apportati alla tassonomia ufficiale. Intanto, dichiara il Bureau of the Census, l'Istat americano, "il concetto di razza usato riflette l'autoidentificazione; cioè la percezione individuale della propria identità razziale". Ognuno dichiara perciò la razza a cui pensa di appartenere. Sono definite cinque razze: 1) Nativi americani ("American Indian or Alaska Native"); 2) Asiatici; 3) Neri ("Black or African American"); 4) Nativi del Pacifico ("Native Hawaiian or Other Pacific Islander"), e 5) Bianchi. Già questa suddivisione grida vendetta al cielo: la categoria "Asiatici" mischia in una sola razza popolazioni indoeuropee (indiani), dravidiche (tamil), mongole (cinesi), malesi, tartare, tutte razze competamente diverse tra loro. Ma l'incredibile è che per oltre un secolo, e fino al censimento del 2000, ognuno doveva scegliere a quale razza appartenere. Se sua mamma era cinese e suo papà bianco, lui/lei poteva "iscriversi" a una sola di queste due razze. Quando nel 1997 l'Office of Management and Budget (Omb) decise di porre fine a questa coercizione tassonomica che stava diventando uno scandalo, le resistenze furono immense. Lo stesso gruppo parlamentare nero (il Congressional Black Caucus), la forza più progressista che esista nella politica statunitense, si appose a che un cittadino potesse "iscriversi" a due razze, "per non indebolire l'identità nera". A causa di queste resistenze fu bocciata la proposta d'inserire una voce "Mixed Race" come alternativa alle cinque razze. Si scelse invece una via straordinariamente barocca che riflette quelli che Benedict Anderson chiama i "deliri burocratici". Invece di "Mixed race", fu inserita una sesta voce, "Other Race", e inoltre si diede il permesso allo stesso rispondente di dichiarare più razze contemporaneamente, così che - afferma il Bureau of the Census - "per il censimento 2000 vi sono 63 possibili combinazioni delle sei categorie razziali di base, incluse le sei categorie per chi dichiara di appartenere a una sola razza, e 57 categorie per chi riporta due o più razze". Il risultato è cioè ora che negli Usa ci troviamo di fronte al delirio combinatorio che le statistiche riporteranno 63 razze diverse! Basta questa cifra a dimostrare ancora una volta quel che Luca Cavalli Sforza ci ricorda in continuazione, e che cioè la razza non ha alcun fondamento genetico, non esiste cioè una razza, esistono solo popolazioni, ragion per cui ogni classificazione razziale è arbitraria: "Per esempio - scrivono Luca e Francesco Cavalli Sforza - non sappiamo rispondere al problema: 'Quante razze esistono sulla terra?'" (Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, 1993). E invece il Bureau of the Census lui sì che la conosce la risposta a questo problema: le razze umane sono 63, non una di più, non una di meno. Ma la coercizione all'auto-imprigionamento razziale è così introiettata nella società americana che solo pochissimi cittadini hanno sfruttato la possibilità di definirsi in modo multirazziale. Come si vede dalle tabelle qui accanto, solo il 2,4% ha dichiarato di appartenere a più di una razza e solo il 5,5% ha dichiarato di appartenere a "qualche altra razza", il che è nulla rispetto alla multirazzialità americana. Ognuno vuole appartenere a una razza, e a un'etnia. Tanto che studiando i decessi dei bambini negli Stati uniti tra il 1983 e il 1985, si osservò una netta discrepanza tra l'etnia di origine dichiarata nei certificati di nascita e quella attestata nei certificati di morte. Il fatto è che i genitori avevano dichiarato origini diverse al momento della nascita e a quello della morte, a testimonianza che si vuole appartenere a un'etnia. Il Census crea e alimenta la coscienza di un'etnia la cui esistenza è almeno problematica. Questa volontarietà è addirittura lampante nel caso delle razze: il 6% di coloro che si dichiarano neri sembra bianco agli intervistatori, mentre un terzo tra coloro che si definiscono asiatici sembra agli osservatori o nero o bianco. Ed è significativo che siano solo in 784.000 a dichiararsi meticci, cioè "bianchi e neri", mentre il numero di "neri chiari" o "bianchi scuri" che s'incrociano negli Usa è altissimo rispetto ai "neri neri" come quelli che s'incontrano in Africa. Siamo qui di fronte agli effetti della distorsione con cui gli americani si autorappresentano razzialmente. Una controprova viene dalla Survey annuale sulla salute nazionale citata da un articolo del New York Times di domenica scorsa: tra coloro che si descrivono insieme "bianchi e neri" solo il 25,2 si considera bianco; mentre tra quelli che si definiscono "asiatici e bianchi", la percentuale di chi si sente bianco sale al 46,9% e sale ancora tra chi si dichiara "bianco e nativo americano" (tra costoro si sentono bianchi l'80,9%). Ma l'incongruenza sta a monte, nel sistema di definizioni. Per gli statistici americani, almeno dal 1973, quando un comitato federale stabilì la nuova tassonomia razziale, l'umanità è spaccata in due gruppi, uno di origine ispanica, l'altro di origine non ispanica. Immaginate un dialogo surreale come: "Lei chi è?" "Io sono non ispanico". E nulla manifesta meglio l'assurdità di questa divisione quanto la categoria di ispanico o latino. Ispanico comprende gli indios boliviani, i bianchi cileni, i neri caraibici, persone di lingua portoghese come i brasiliani. Non è né una razza, né un'etnia, né una lingua. E però finisce per funzionare come una settima razza aggiunta a tutte le altre perché un argentino biondo con gli occhi azzurri non è contato tra i bianchi, un indio dello Yucatán non è incluso tra i nativi e un haitiano nero come il carbone non è compreso tra i neri. Ma i bravi compilatori del Censimento vanno invece a chiedere l'appartenenza razziale a chi si dichiara non ispanico e da qui viene il risultato più significativo. Sulla popolazione totale degli Usa (281 milioni), sono in 6,8 milioni (2,4%) a dire di appartenere a due o più razze e sono in 15,3 milioni a definirsi di "altra razza". Si definiscono latinos in 246,1 milioni (12,5%) e si definiscono "non latinos" in 246,1 milioni (87,5%). Ebbene, tra costoro ci sono solo 467.000 persone che si definiscono di "altra razza". Vuol dire che gli altri 14,8 milioni di statunitensi che adottano la stessa definizione sono tutti latinos. Il gruppo latino è perciò quello più a disagio con la tassonomia razziale americana: pur costituendo solo il 12,5% degli statunitensi, forma il 97% degli "altra razza", ed è il 33% circa di chi si dice bi o pluri-razziale. Tra i latinos il 48% pensa di essere bianco: il fatto è che non può dire "sono asiatico", o "nativo" o "pacifico" o "nero", perciò mette la croce o su "bianco" o su "altra razza". Nella definizione razziale, il fattore soggettivo diventa così sempre più importante: tra il 1960 e il 2000 gli Indiani Americani sono passati da mezzo milione a quasi 2,5 (una crescita del 500% in 40 anni, impossibile demograficamente): da un certo momento deve aver fatto chic definirsi nativi. Ma non è solo questione di gusti, c'entrano anche i soldi. Iscriversi a una minoranza ben definita ha i suoi (poveri) vantaggi. Attraverso la discriminazione positiva (affirmative action), una serie di contributi federali, di posti di lavori pubblici, di borse scolastiche vengono assegnati alle varie minoranze secondo un sistema di quote. Così c'è un interesse materiale a essere Nativo o Asiatico o Ispanico. Tanto è vero che oggi gli immigrati arabi si lamentano di essere assimilati alla categoria Bianchi e vorrebbero una propria "razza" Arabi con una sua quota di impieghi statali e di contributi. Vorrebbero farsi riconoscere come casta legittimata, ottenere per esempio una poltrona nel governo. Una controprova la si ha dall'Università di California che nel 1998 ha abolito le discriminazioni positive nell'iscrivere e dare borse di studio agli studenti. Da allora il numero di iscritti che ha rifiutato di definire la propria appartenenza razziale è aumentato del 218%. Si spiega così una curiosa direttiva dell'amministrazione Clinton. Quando una persona dichiara al Census di appartenere a due razze di cui una è bianca, allora a tutti gli scopi legali viene assegnato all'altra razza, quella della minoranza (una misura chiaramente intesa ad aumentare le affirmative actions). E' con questo tipo di logica che il concetto stesso di razza precipita in attorcigliamenti mentali degni di un contorsionista: è ovvio che la soluzione più facile sarebbe abolire dal Census le categorie di razza. E invece no, altrimenti gli Stati uniti andrebbero incontro a un'unica, gigantesca crisi di astinenza razziale. Ma cosa ci si può aspettare da un paese in cui l'Assemblea costituente raggiunse il compromesso di contare uno schiavo come i tre quinti di una persona?