da "Il Manifesto"

29 Aprile 2001

Andata e ritorno per Juan e José

Il racconto di una normale amiciziatra un ragazzo italiano e due coetanei ecuadoregni. Finita all'aeroporto di Fiumicino con una normale espulsione

AMILCARE ASTONE

Ho 25 anni, sono napoletano. Quest'anno, dopo la mia laurea in giurisprudenza, ho intrapreso un viaggio di tre mesi (zaino in spalla), attraverso gran parte del continente sudamericano: 15 mila chilometri di strade e campi che mi hanno portato a conoscere e a vivere con parte di quel 20% più povero della popolazione mondiale che si nutre di appena l'1% delle risorse disponibili. In Ecuador ho conosciuto un gruppo di contadini che per due dollari suonavano nei ristoranti della località in cui mi trovavo. Diventammo amici, anche perché spesso suonavano in bar deserti dove l'unico ospite ero io. Una sera, due fratelli del gruppo mi invitarono a conoscere il loro pueblo. Sono stati dieci giorni indimenticabli, ho vissuto insieme a persone che non hanno nulla e che quel nulla lo hanno diviso con me. Tornato in Italia decido insieme alla mia famiglia e ad alcuni amici di invitare Juan e José qui da noi. Contatto quindi la questura di Napoli e mi preoccupo di inviare ai ragazzi e all'ambasciata ecuadoregna in Italia una carta di invito con la quale mi assumevo tutte le responsabilità del caso. In questura mi assicurano che con il mio appoggio economico tutto sarebbe andato liscio. Raccolgo gran parte dei soldi necessari per il biglietto aereo (il resto Juan e José lo hanno avuto tramite una colletta a cui tutti - dico tutti - gli abitanti del villaggio hanno partecipato) e fisso la data di arrivo dei due. Il 10 aprile 2001 alle 8,10 i due amici arrivano a Roma. Io e Eugenio (un amico di Napoli) siamo lì ad aspettarli. Un'ora di attesa e finalmente vedo uscire uno dei due fratelli accompagnato da un poliziotto. Entro dentro con loro e qui c'è un primo controllo. Deve compilare una carta, ma poiché hanno difficoltà a capire scrivo io per lui. Dopo pochi minuti un agente esce e dice che uno dei due fratelli non è ammissibile in tutto il circuito Schenghen fino al 2003. Perché? Perché nel 1997 suonava per strada in Germania senza autorizzazione. Espulso. Doccia fredda. "Non è possibile, in questura mi è stato detto che era tutto ok, che quella faccenda della Germania - cosa di cui ero già stato avvertito dai ragazzi - non rappresentava pregiudiziale alcuna" dico stupito. "Mi dispiace, ma io già le ho detto troppo - risponde secco l'agente - Vada sopra e si rivolga al capoturno. E' lui a decidere" e chiude la porta. Corro sopra per chiedere spiegazioni. Due ore di attesa. Intanto, tramite alcuni amici, parlo con l'onorevole Siniscalchi il quale mi dice che avrebbe contattato il sottosegretario agli interni. Parlo con un primo ispettore: non può fare nulla, "la legge è legge". Ancora attesa e telefonate. Alle 17 ritorniamo all'attacco con il secondo ispettore capoturno: ancora meno disponibile del primo. Intanto mi permettono di vedere gli amici ecuadoregni chiusi in un'auletta dell'aeroporto: hanno gli occhi rossi, non capiscono cosa stia succedendo. Sono sconvolti, ci abbracciamo impauriti. Riesco infine ad esporre il caso all'onorevole Walter de Cesaris, che riesce a parlare con l'ispettore al telefono. Alle 19 l'ispettore mi chiama e dice che per il primo ecuadoregno non è possibile fare niente, e che per il secondo dovrei firmare un'assunzione di responsabilità, con ciò intimorendomi circa i rischi di una condanna per favoreggiamento della immigrazione clandestina. Poi, all'improvviso, colpo di scena. Lo stesso ispettore esce dalla saletta del dirigente annunciandoci seccamente che neanche per il secondo è possibile l'ammissione. Con il sangue gelato ne apprendo le motivazioni: "Perché non ha soldi per mantenersi, ha rilasciato una dichiarazione e la legge parla chiaro: chi non ha soldi non entra". "Non è possibile - rispondo - lui i soldi ce li ha, sono stato io a suggerirgli di non farne menzione: volevo che i miei amici sapessero sin dal primo momento che potevano disporre dei miei soldi, e che non avrebbero dovuto utilizzare i loro essendo miei ospiti". Insisto: "Controllate il mio conto correte. Ecco qua, i soldi ci sono" e metto sul tavolo una carta di credito e alcune banconote da centomila. "Purtroppo non c'è più niente da fare - replica l'ispettore - la prima dichiarazione è quella che vale. I suoi amici se ne devono andare". Lo imploro, l'ispettore mi suggerisce di chiedere la mediazione di "qualche politico, può darsi che il capo si ammorbidisce". "Ma non è giusto! Il ragazzo deve uscire senza che nessuno si metta a mediare per lui. Non potete trattarli così questi ragazzi, sono persone, non animali. Sono lì dentro da 12 ore. Dateci il nostro amico, per piacere" incalza Eugenio. "Ora basta! - urla l'ispettore - mi avete indisposto, andate fuori e non si discuta più! Fuori!" Alcuni giovani poliziotti intervengono in gruppo e si mettono tra noi e l'ispettore: "Fuori, avete capito o no? Dovete andare fuori. Via! Via!". Richiamo l'onorevole De Cesaris, ma alle 20 l'ufficio di Fiumicino chiude. Accompagno Eugenio alla stazione, lui torna a Napoli in treno. Per me nottata d'attesa. Morale a picco. L'indomani mattina sento nuovamente l'onorevole De Cesaris. Comincia quindi un giro di estenuanti telefonate tra me, l'onorevole, mia madre e il posto di frontiera di Fiumicino. De Cesaris chiama più volte ma i poliziotti in servizio non rispondono. Il tempo passa e finalmente riesce a parlare con una poliziotta. La stessa che - al posto di frontiera di Fiumicino - esce dalla saletta dei bottoni e chiede ai colleghi "Ma chi sono questi Juan e José Masaquiza?" "Ah sì - fa' uno degli agenti - sono già partiti". "Cazzo, e mo' che gli dico all'onorevole? Io gli ho detto che sono ancora qui!" "Digli che...niente, che te frega dell'onorevole!" Io sono lì davanti, sento tutto, sconvolto: "C'è un errore! - urlo disperato - almeno uno dei due non deve partire, c'è un errore!". "Ma chi è questo?" fà uno dei poliziotti, appena arrivato. Si rivolge a me: "Ahò, ma chi sei tu che decidi? Stai zitto e facce lavorà. Vai fuori". Così, dopo 25 ore di attesa apprendo in lacrime che i miei due amici sono stati rispediti al loro paese. A casa. Respinti. Mi metto in macchina e torno a Napoli da solo. Preso in giro. Distrutto. Sconfitto.