da "Il Manifesto"

04 Gennaio 2001

Dolce ghiaia, nuovi ghetti

Dal Casilino '700 a Tor De' Cenci, i magnifici sgomberi targati Rutelli

GIOVANNA BOURSIER CINZIA GUBBINIROMA

Non è facile trovare Casilino 700: se chiedi ai passanti ti mandano ovunque e capisci che tutti sanno che esiste ma nessuno ci è mai entrato veramente. Sulla Casilina il traffico è intenso, rumoroso, e bisogna urlare per farsi capire: "Mi scusi, sa dirci dove si trova il campo nomadi?", "al semaforo a destra". No, sbagliato, "dritto e, subito dopo l'incrocio, a sinistra". No, "sempre dritto, saranno 300 metri. Ma ce l'avete una pistola?". "E' proprio oltre l'incrocio successivo, a sinistra. Ma proprio lì volete andare? Guardate che è pericoloso". Alla fine ci guidano i rom - quelli dell'incrocio successivo, appunto - che sono lì a far la carità e abitano poco più in là, in un altro campo orribile, Casilino 900: "bisogna percorrere quella stradina - ci spiegano - dove vedete lo sfasciacarrozze ci siamo anche noi". Lo sfasciacarrozze è in via degli Angeli, nome che stride col luogo: solo fango, terra e polvere, un deserto inquietante se si pensa che qui, fino a qualche mese fa, abitavano più di 1500 persone, macedoni, rumeni e bosniaci. Adesso c'è solo un'enorme spianata. Era, forse, il campo-nomadi più noto d'Italia, non solo per le sue dimensioni smisurate ("il più grande d'Europa", si diceva), ma soprattutto per i suoi morti, bambini piccolissimi come Margota, che con la sua tragica fine riuscì almeno a trascinare per alcuni giorni telecamere e giornalisti nella favelas romana. Fu il sindaco di Roma in persona, Francesco Rutelli, a deciderne lo smantellamento, promettendolo come un vanto per sette lunghi anni, tanto che oggi, ad operazione conclusa, tappezza orgoglioso i muri cittadini con manifesti inneggianti alla chiusura della "vergogna di Roma" e, soprattutto, alla "diminuzione del 20% della presenza rom" in città. Ma mentre dichiara, raggiante, di aver compiuto "un atto di civiltà", sulle sue parole sembrano pesare le reali condizioni di migliaia di uomini, donne e bambini nella capitale. Il problema Casilino, infatti, è stato affrontato dalle autorità cittadine soprattutto come un problema di immagine e di ordine pubblico. Se la cacciata dei rom dal campo ha regalato alla città un nuovo grande parco - progettato nientemeno che da architetti inglesi - contemporaneamente è stata presentata come l'occasione per regolarizzare la presenza di tutti i rom di Roma. In questo senso, e non certo in termini di diritti umani, è stata pensata l'intera operazione che, naturalmente, ha coivolto tutti i campi romani. Stabilito, infatti, che solo chi aveva il permesso di soggiorno sarebbe potuto restare, sono cominciate le espulsioni, le minacce e gli sgomberi alla ricerca, sostanzialmente, di spazi dove sbattere chi rimaneva, i resti della gigantesca bidonville, in un gioco di vasi comunicanti che non ha prodotto nessun progetto organico e nessuna idea capace di misurarsi davvero con il problema di alcune migliaia di persone disperate che vorrebbero poter vivere da qualche parte. Così all'alba del 3 marzo 1999 polizia e carabinieri sono arrivati in forze a Tor de' Cenci decisi ad avviare le ambiziose operazioni della giunta, che prevedevano di riorganizzarlo come campo modello, svuotandolo per poi riallestirlo con i container (il massimo che amministratori e associazioni sono riusciti a pensare) e farci tornare chi ci abitava più alcuni del Casilino intanto smantellato. Ma mentre la maggior parte dei rom di Tor De' Cenci veniva trasferita in un insediamento provvisorio in via Carucci, 33 di loro, insieme a una ventina di rom del Casilino, venivano imbarcati su un aereo diretto a Sarajevo, espulsi perché privi di permesso di soggiorno. Tra loro anche chi aveva tutto il diritto a restare, una donna incinta, un ragazzino cacciato con la zia al posto della madre, una ragazza minorenne. Un'operazione arbitraria e agghiacciante - contro la quale ha protestato persino l'Alto commissariato dell'Onu - perchè i rom di Tor de' Cenci erano bosniaci che, nel loro paese - ormai sotto l'autorità serba - non potevano, ovviamente, più vivere. Adesso comunque Tor de' Cenci è il campo modello. Sulla Pontina, adiacente a Spinaceto, a ridosso della strada, di fronte a un enorme deposito di cassonetti, lontano dai servizi e dalla vita cittadina, è un recinto in cui vivono circa 200 persone, divise per gruppi etnici, nei container. All'ingresso il presidio dei vigili, che controllano i documenti. Poi i cancelli, che separano e circondano i blocchi: prima i bosniaci di Casilino 900, poi i macedoni di Casilino 700 e in fondo i rom che abitavano già qui. Con i primi, che sono chiusi e hanno un loro ingresso, non si riesce a parlare, "ci vuole l'autorizzazione comunale", ci dicono, e ci urlano di andarcene. I vigili spiegano che le sbarre servono proprio a "evitare le risse", ma non sanno molto di più perché, aggiungono, loro controllano "i civili", oltre "alla luce e ai bagni". I bagni, in effetti, sono la gioia di tutti. Vadil, che ha vent'anni e abitava al Casilino, e adesso sta nel blocco centrale, dice: "qui si sta meglio, ringraziamo, ci sono acqua calda e fredda, e un bagno per ogni famiglia". I container sono tutti uguali, messi in fila, grigi. Su tutti c'è scritto So.Ge.Co (la ditta costruttrice), Comune di Roma. Ognuno ha almeno due stanze, con pavimento di legno, bagno e cucina. Intorno c'è la ghiaia - che i rom sognano in tutta Italia - dove molti hanno piantato alberelli che, insieme ai colori del bucato steso ovunque, danno un'aria un po' più allegra a un luogo che non sembra esserlo nonostante il campetto sportivo, i servizi comuni per l'attività coi bambini e il container per il doposcuola. "Sta andando in malora, dato che nessuno se ne occupa", ci dicono. Poi aggiungono: "Qui in effetti stiamo meglio, ma per noi la vita resta triste. I container servono a poco se non ci danno il permesso di soggiorno, se non ci fanno lavorare e non ci aiutano a far capire che siamo anche noi persone, come tutti". Alla fine c'è qualcosa che non convince nel nuovo campo di Tor de' Cenci: se questo deve essere un luogo definitivo per chi può restare, allora non si capisce perchè qui, nei container tutti in fila, tutti grigi e tutti uguali. Ma poi, ripensandoci, diventa tutto molto chiaro: perchè sono rom, un problema fastidioso nella città del giubileo e della nuova campagna elettorale.