da "Il Manifesto"

31 Dicembre 2000

Oltre l'universalismo a una dimensione

Recuperare una prospettiva universalistica, ecco l'antidoto al dilagare delle ideologie discriminatorie. Nelle prossime due puntate, una proposta di rilettura di pagine sbrigativamente accantonate dalla sinistra. Per tornare alle grandi fonti filosofiche di Marx, alla potenza emancipatrice di Kant e di Hegel

ALBERTO BURGIO

Che cosa accade in questa Europa di fine millennio? D'accordo, la storia non si ripete mai eguale a se stessa, ma affiora nei non più giovani e in quanti serbano memoria del passato il sentimento del déjà vu. Pare di cogliere una coazione a ripetere nelle risposte che il vecchio continente oppone alla ricorrente sfida dell'impatto con altre aree culturali e geopolitiche. A pochi decenni dalla catastrofe europea, ci ritroviamo al cospetto di guerre etniche e di campi di concentramento per "stranieri", "clandestini" e profughi. Il discorso pubblico ruota di nuovo intorno ai temi dei confini, della sicurezza, della comunità. Si riscoprono valori roventi, a cominciare dalle idee di civiltà europea e di Europa cristiana. La sindrome dell'accerchiamento resuscita spettri profondi dell'inconscio collettivo, suggerisce di riconoscere un momento cruciale dell'esperienza europea nel trauma delle invasioni barbariche che appena un millennio e mezzo addietro decretarono la dissoluzione della romanità. L'Europa appare stretta in una morsa che è politica e ideologica nello stesso tempo. E' il nord del mondo, miraggio per masse di diseredati che ne mettono a repentaglio i privilegi. Ma è anche la terra dell'universalismo, l'area del pianeta che ha visto progressivamente radicarsi una concezione unitaria della specie. L'istinto di autodifesa cozza contro gli imperativi morali dell'accoglienza e della solidarietà. L'universalismo genera un formidabile dilemma. Se siamo uguali (tutti figli di Adamo o di Cristo, tutti portatori di diritti inalienabili), non c'è confine che tenga, specie dinanzi al bisogno e al rischio estremo; ma se ogni confine è violabile, la sicurezza dilegua e ogni bene è in pericolo, a cominciare dall'identità. Come uscirne, se non cercando. giustificazioni a esclusioni e rifiuti? E dove trovare tali giustificazioni se non in diversità essenziali, in distanze incolmabili che la natura stessa ha stabilito tra l'una e l'altra famiglia umana? Così la coscienza europea ha risolto, nel corso del tempo, un'impasse lacerante. Mentre la modernità consolidava il sentimento dell'universale (uno il mondo, una la storia, uno il suo soggetto), il razzismo ha rappresentato una potente risorsa ideologica, in grado di pacificare gli animi: uno il mondo, ma consegnato a una specie solcata da gerarchie immutabili; e non una la storia, poiché diversi sono i ritmi dell'evoluzione, i fini, i criteri di valore. E' stato un controcanto insistente ed efficace. Ad ogni passo in avanti nell'unificazione del pianeta, nuove obiezioni, nuove contromosse. Cinquecento anni fa si trattò di spiegare perché lo sterminio degli indios e la schiavitù dei neri non negavano l'unità del genere umano; dopo la rivoluzione francese fu la volta della cittadinanza e della nazionalità, chiamate ad arginare il fiume impetuoso dei diritti naturali; tra Otto e Novecento terreno cruciale dello scontro sono stati via via i linguaggi e le culture, le religioni e i corpi. Non già nonostante, bensì in virtù dell'affermarsi dell'unità del mondo occorreva produrre immagini di radicale alterità, capaci di legittimare il primato di interessi particolari nel grembo stesso dell'universalità. Insieme ma differenti; interdipendenti e tuttavia diversi: chi non ricorda Sepúlveda, impegnato a dimostrare che l'indio è solo un "homunculus", assimilabile allo schiavo per natura di Aristotele? E Voltaire, persuaso che nella pelle nera risieda un marchio di maledizione? E Maistre, che irride all'idea di "essere umano", non avendo egli mai incontrato se non francesi, inglesi o tedeschi, mai uomini tout court. Chi non rammenta le tipologie fisiognomiche, lo studio degli "angoli facciali", della forma di nasi e occhi, della struttura dei capelli? E chi, ancora, non ha sentito parlare di foetor judaicus, di "delinquenti atavici", di "classi pericolose", di nature "devianti" e "asociali"? Chi ha dimenticato che ancora ieri le donne non votavano, di nuovo in forza di una "naturale" inferiorità? L'ossimoro di un universalismo particolaristico percorre l'intera storia dell'Europa moderna, e sarebbe insensato illudersi che questo filo tenace si interrompa per il solo fatto che se ne riconoscono a mente fredda gli effetti perversi. Per quanto sconvolgente, sei milioni di ebrei distrutti non bastano. Finché la costituzione materiale di questo continente non muterà e non cambierà, con essa, anche la logica dei suoi rapporti con il resto del mondo, fino ad allora non si estinguerà nemmeno la ciclica tentazione di recuperare le "radici" della civiltà europea e di farne, nei momenti di crisi acuta, un bastione difensivo contro la pressione di barbari e masse subalterne. Lo spettacolo dei nostri giorni trova in questo quadro la propria collocazione naturale. Il sinistro richiamo alle "piccole patrie", nicchie comunitarie in cui più agevolmente individuare l'intruso (l'"allogeno" o il "deviante"); la regressione neo-etnica della somma gerarchia vaticana (le ripetute esternazioni dell'arcivescovo di Bologna sulla "sostanziale diversità" dei musulmani - "estranei alla nostra "umanità" individuale e associata" - alle quali fa eco il monito papale circa l'unicità del percorso salvifico, coincidente con l'adesione alla fede cattolica); l'ossessiva invocazione di maggior sicurezza (dove la persecuzione dei più miserabili mira a tacitare l'ansia seminata dalla precarietà generale nelle relazioni sociali e di lavoro, nei rapporti con l'ambiente, con il corpo, con i codici morali di riferimento); e, via via degradando, la riabilitazione dei peggiori anni della nostra storia (al punto di concedersi recuperi nostalgici della propria giovanile militanza repubblichina), l'indifferenza verso la tragedia quotidiana di migranti e "irregolari", la sconvolgente complicità delle istituzioni con la violenza dei razzisti. Non si tratta di un incubo dal quale risvegliarsi, ma di un tratto portante di una forma di vita storico-sociale. Per questa ragione - lo si è appena detto - tutto ciò non cesserà finché di questa specifica violenza materiale e morale ci sarà bisogno per "difendere la società", per governarne la riproduzione in forme funzionali agli interessi prevalenti. Questo non significa che non vi sia altro da fare che aspettare e sperare in un mondo migliore. Solo chi nutre concezioni semplicistiche dei processi storici sottovaluta la forza delle convinzioni, ignora che esse sono, nel bene e nel male, una potenza concreta quando divengono parte dell'idea di sé, quindi fonti di volontà collettiva. C'è margine per la elaborazione di un atteggiamento critico adeguato, si può lavorare alla formazione di una diffusa consapevolezza della struttura essenziale del razzismo, delle sue logiche, dei suoi dispositivi, delle sue cause storiche (sociali, culturali, psicologiche). Ci si può proporre di dare forma a un nuovo senso comune in grado di orientarsi dinanzi a questi fenomeni, di coglierne la perversa coerenza, di fare argine al loro dilagare. La questione sta tutta nell'individuare il terreno sul quale insediarsi, nella scelta del punto di vista, nella profondità delle stratificazioni su cui focalizzare l'attenzione. Oggi la via suole essere la scorciatoia moralistica, come se deprecare bastasse a comprendere. Per di più ci si aggira, come in una gabbia, nel circolo del breve periodo. La caduta del Muro di Berlino; la "globalizzazione"; l'"Impero". Al massimo, i fascismi novecenteschi nelle loro molteplici varianti. Non si va oltre, accettando di fermarsi al sintomo, banalizzando la patologia. Perché si scarta la lunga durata? Perché ci si attesta sul piano della contemporaneità, se non della cronaca, forti del presupposto secondo cui riferirsi a persistenze impedirebbe di cogliere le discontinuità e di riconoscere la mutata configurazione dei processi? Alcune risposte appaiono plausibili. Dalla più ovvia (limitarsi alle insorgenze immediate è più agevole; tematizzare quadri vasti richiede competenza e fatica), alla più maliziosa (porsi dinanzi al lungo periodo può essere frustrante e persino avvilente, perché dà il senso della lentezza dei mutamenti e della difficoltà di operare sul terreno della prassi storica). Ma la ragione principale sembra altra, e chiama in causa un tormentato rapporto con la modernità. Di questa si inclina a dare una lettura unilaterale e semplicistica. Se ne coglie l'effetto di dominio sulla natura e sull'uomo, ma se ne trascura la potenza emancipatrice. L'identificazione tra modernità e tecnica è uno dei tratti caratteristici delle nuove culture critiche, formatesi, più che sulle pagine di Marx e delle sue fonti (da Spinoza a Rousseau, da Kant a Hegel), su quelle dei Francofortesi, di Sartre e di Foucault, per non dire di Nietzsche e dello stesso Heidegger. In quest'ottica appare inutile qualsiasi riconsiderazione complessiva della vicenda europea. Perché problematizzare ciò che parla da sé? Lo sviluppo moderno è il tempo del potere borghese, nel quale il capitalismo impone la sua dura legge al pianeta; è l'epoca in cui prende forma un'idea della storia come progresso informata da una superbia demiurgica smascherata dagli orrori delle guerre mondiali e dai contraccolpi distruttivi dello sviluppo: perché mai, dunque, attardarsi in vane ricerche? Troppo va disperso per effetto di tale prospettiva: non solo ai fini di una adeguata conoscenza di sé, della propria genealogia intellettuale, dell'esperienza storica di cui siamo figli. Ciò che questa sbrigativa damnatio memoriae della tradizione moderna comporta è, nientemeno, il fatale slittamento della coscienza critica su posizioni regressive. Una lettura unilaterale è sempre sbagliata. In questo caso specifico, l'errore è aggravato dal mancato riconoscimento del significato fondamentale dello sviluppo moderno, tendenzialmente assimilato a quelle istanze che andrebbero viceversa intese come sua negazione determinata. Di qui discende l'incapacità di interpretare correttamente il senso della violenza che percorre la storia della modernità come un suo tragico contrappunto. Che cos'è il moderno nella sua logica essenziale? Sul terreno fattuale, in primo luogo, è quel processo di individualizzazione della soggettività storica che ha progressivamente scalzato la società cetuale e in virtù del quale si è venuta radicando la concezione universalistica (egualitaria) della persona. In una battuta: l'idea che ciascuno sia un individuo, e che ogni individuo sia, in quanto tale, portatore di diritti inalienabili (alla vita, all'indipendenza, all'autodeterminazione). Sul terreno delle ideologie, l'essenza del moderno è condensata nel paradigma giusnaturalistico e in una idea della storia come prassi umana universale: come processo di autoriconoscimento del genere umano quale insieme unitario e quale soggetto della propria vicenda, in grado di progettare il proprio futuro, di elaborare finalità e di realizzarle nel corso del tempo. Difficile non cogliere la potenza rivoluzionaria di questo movimento reale e di simili posizioni ideologiche. Ed è infatti contro queste potenzialità progressive che, nel grembo stesso della modernità, si sono via via mobilitate istanze contrapposte, tese a screditare la concezione universalistica dei soggetti e del processo storico: a restaurare gerarchie antropologiche e a declinare al plurale l'idea di storia, affermando l'insuperabilità della prospettiva relativistica. Si è trattato e si tratta della reazione degli interessi dominanti contro la dinamica eguagliatrice, inclusiva e unificante della modernità. Le parole d'ordine di questa battaglia antimoderna sono note e indubbiamente seducenti: differenza, peculiarità, identità. Si è avuto buon gioco nel denunciare i pericoli dell'integrazione autoritaria e omologante. Si è sapientemente sfruttata la malafama della "totalità" (come se il tutto, per essere davvero tale, non implicasse la composizione e il riconoscimento delle parti, nessuna esclusa). Il risultato è grave: una perdita di riferimenti culturali tale da porre a rischio ogni discrimine tra posizioni progressive e reazionarie. Il particolarismo appare paradigma della prospettiva critica, dimodoché sfugge ai più la logica di una violenza espressa in difesa del privilegio. Siamo tutti contro il razzismo, certo, salvo dividerci poi subito quando la discussione si sposta su lemmi meno appariscenti, sui temi della comunità, del localismo, della differenza variamente intesa. La crisi della modernità - nei fatti conseguenza del sopravvento di poteri parziali - è celebrata come un passaggio liberatorio, per cui non se ne coglie la portata catastrofica, l'effetto dissolutore nei confronti di un grande progetto di emancipazione collettiva che, fondato sull'idea del genere umano come soggetto unitario artefice della propria storia, mira a comprendere in sé intere comunità civili e, in prospettiva, l'"umanità" come universale concreto. Tutta una linea di pensiero è lietamente consegnata alle ortiche, individuata come responsabile di una impresa collettiva - l'esperienza del movimento operaio e socialista - criminalizzata anche dai suoi eredi. Finalmente, la stessa idea di storia, se declinata al singolare, sembra improponibile, confutata alla radice dal disfarsi, giorno dopo giorno, di qualsiasi contesto generale di senso. L'unica speranza è che, proprio da questa distanza, sorga l'opportunità di prestare attenzione a una tradizione teorica che ha rappresentato un momento tra i più alti dell'autocomprensione del mondo moderno, alla costellazione di pensieri tradizionalmente denominata "filosofia della storia". (prima puntata)