da "Il Manifesto"

10 Dicembre 2000

L'imbroglio della criminalità a base etnica

Si apre martedì a Palermo la conferenza dell'Onu sulla criminalità organizzata. In un clima di xenofobia

SALVATORE PALIDDA*

"La tratta di esseri umani è al terzo posto come fonte di danaro sporco, frutta 10 mila miliardi all'anno". "Duecento milioni di persone vivono ridotte in schiavitù". "Le nuove mafie straniere stanno soppiantando quelle italiane". Queste ed altre gravissime affermazioni, puntualmente riprese dai media, vengono ormai molto tranquillamente pronunciate da varie personalità, a cominciare dal ministro Bianco per finire a Pino Arlacchi che, nella sua veste di responsabile del programma delle Nazioni Unite di lotta al narcotraffico, si appresta ad aprire, martedì a Palermo, la Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale. Ma le cose stanno davvero in questi termini? E' davvero possibile divulgare stime con tanta leggerezza? E queste stime, quale fondamento hanno? Per rispondere a queste domande, e per tentare di capire quali siano (in Italia) le reali correlazioni tra migranti e criminalità organizzata, vorrei proporre qui alcuni elementi di analisi mettendo a confronto quelle tesi con le esperienze fatte sul campo da investigatori qualificati e testimoni privilegiati che ho avuto modo di intervistare nel corso delle mie ricerche. Per fare ciò, però, bisogna innanzitutto distinguere tra devianza e criminalità organizzata, ossia tra comportamenti e atti che corrispondono a infrazioni individuali alle regole da parte di soggetti segnati dal disagio sociale, e attività che invece sono svolte da individui che fanno parte di organizzazioni criminali create appositamente a tale scopo. Solo di queste seconde, in questa sede, vorrei tentare di occuparmi. Le organizzazioni criminali hanno sempe avuto molti modi per trarre profitto dai migranti: reclutandoli per poi destinarli a condizioni di super-sfruttamento, utilizzandoli inconsapevolmente o ricattandoli al fine di nascondere altri traffici criminali, o, infine, reclutandoli direttamente per attività illecite. Storicamente le migrazioni rischiano di essere sfruttate, manipolate o alla mercé della criminalità organizzata quando non possono svolgersi liberamente, quando cioé nel paese di partenza o nel paese di destinazione o in ambedue vige una normativa che le proibisce o è fortemente restrittiva o che non ne favorisce l'inserimento regolare e "protetto". Al contrario, nei periodi in cui le migrazioni sono più o meno libere, tollerate o protette da normative, i margini di manovra favorevoli alla criminalità organizzata si restringono o scompaiono. Ricordiamo per esempio che dagli anni '60 agli anni '80 i paesi di destinazione hanno raramente adottato normative e pratiche proibizionistiche rispetto all'immigrazione, mentre avveniva il contrario per l'emigrazione nei paesi con regimi totalitari dell'area Urss: emigrare da quei paesi voleva dire rischiare la vita, ed è infatti proprio in quei paesi che le "mafie" cominciarono ad approfittare della situazione. Non a caso gli accordi di Helsinki del 1972, voluti dai paesi occidentali, sancirono il diritto all'emigrazione (a cui mai ha corrisposto un diritto all'immigrazione). E' però solo con gli anni '90 che la criminalità organizzata cerca di sfruttare maggiormente la "domanda di migrazione", approfittando del fatto che i paesi di destinazione e molti paesi di partenza adottano pratiche proibizioniste. Si può quindi dire che la prima correlazione tra criminalità organizzata e migrazioni si stabilisce quando c'è proibizionismo. Una seconda correlazione è invece dovuta alla diffusione della criminalità organizzata e della sua transnazionalizzazione. Emblematico il caso italiano. E' infatti noto che le cosiddette "mafie" nostrane, già da tempo in contatto con varie organizzazioni criminali in molti paesi del mondo, hanno adottato una strategia di dislocazione all'estero, e in particolare nei paesi dell'Est, sia per sfuggire alla repressione antimafia sia per conquistare nuovi mercati e spazi relativamente "vergini". Esattamente come fa ogni attività economica a seguito dell'affermarsi della globalizzazione. Ma veniamo a noi, e cioé alla criminalità organizzata immigrata in Italia. I media italiani parlano di "criminalità immigrata" già da tempo, ma è solo nelle relazioni di inaugurazione degli anni giudiziari 1999 e 2000 che il fenomeno viene esplicitamente citato e talvolta enfatizzato. Un'enfasi dovuta anche all'invalso malcostume di misurare la criminalità "su base etnica", a partire dai dati complessivi relativi agli arresti per tutti i reati, compresi quelli cosiddetti predatori. Mentre, semmai, per capire davvero bisognerebbe analizzare solo i dati relativi a reati inerenti le attività di appartenenza a organizzazioni criminali e soprattutto l'esito dei procedimenti giudiziari riguardanti tali atti di polizia giudiziaria. Non è infatti un caso se i procedimenti giudiziari a carico di stranieri riguardanti reati di organizzazione criminale - aperti di fatto solo nel '99 - sono piuttosto rari e ancora, in molti casi, non sono arrivati neppure al primo grado di giudizio. Rispetto all'opinione corrente sulle "nuove mafie", risulta però essere assai diverso il giudizio espresso da molti tra gli investigatori qualificati e i testimoni privilegiati che ho avuto modo di intervistare. Riferendosi alla criminalità organizzata straniera, alcuni dirigenti di Ps osservano che si tratta di gruppi "strutturati in maniera rudimentale, ma non sono organizzati a livello di associazione, come intendiamo noi", sono cioè "organizzazioni molto primitive". Quanto ai più temuti dai media, gli albanesi, "ovviamente non esiste un'unica organizzazione albanese". Ci sono invece tanti gruppi "rudimentali". Fino a qualche anno fa, nell'ambito delle attività dedite al traffico droga, gli albanesi facevano solo i corrieri; poi sono saliti di livello, si sono organizzati, anche se in modo rudimentale. Non si ha, per esempio, conoscenza di laboratori di raffineria di droghe gestiti da albanesi. Esistono però anche gruppi "in transizione", che abbinano lo sfruttamento della prostituzione con lo spaccio di marijuana ed eroina, e sono quelli che alcuni dirigenti di polizia considerano "i più disperati" rispetto alle organizzazioni più professionalizzate. Per quanto riguarda il controllo delle attività criminali e i rapporti tra stranieri e gruppi criminali italiani, in particolare a Milano, tutti i testimoni privilegiati concordano sul fatto che ormai si è imposta una frammentazione estrema: "Il mercato è liberalizzato al massimo". Il 95% dello spaccio al minuto di droghe leggere ed eroina sarebbe ormai praticato da extracomunitari. Per lo spaccio di cocaina due sarebbero invece i livelli principali: quello "basso" anch'esso appannaggio degli extracomunitari, mentre gli italiani sarebbero dominanti nel livello "alto" della cocaina come nello spaccio di altre sostanze nelle discoteche. Secondo alcuni dirigenti della Guardia di Finanza, tra i più impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, le organizzazioni italiane avrebbero dato in gestione agli albanesi il traffico dell'eroina per ragioni puramente commerciali e organizzative, ma non li avrebbero lasciati "autonomi". Lo sarebbero invece quelli che operano nel contrabbando di sigarette, come effettivamente dimostrano le indagini in Puglia. Inotre è interessante notare come alcune di queste organizzazioni siano di tipo verticistico, caratteristica che forse si può spiegare anche con il fatto che molti criminali (soprattutto dei Balcani) sono ex militari o ex-poliziotti, oppure persone legate da relazioni di parentela. Le indagini, svolte anche in Albania, dimostrano infatti che spesso tali organizzazioni riciclano i ricavati nel proprio paese e non all'estero, mentre il nocciolo duro di alcune gangs proviene a volte da una stessa cittadina. E' anche noto che alcuni albanesi arrestati abbiano costituito proprio nelle carceri italiane dei veri e propri clan. Tra loro non ci sono pentiti: i benefici accordati ai "collaboratori di giustizia" italiani non sembrano essere cedibili, perché gli albanesi hanno la propria famiglia e tutti i beni nel proprio paese e restano pertanto privi di ogni eventuale misura di protezione. Un'ultima considerazione. Lo scivolamento di una quota di immigrati in attività devianti, a volte controllate direttamente o indirettamente da organizzazioni criminali, riguarda soprattutto giovani maschi originari dei paesi dell'immediata periferia europea. Il fenomeno non è dissimile da quello che riguarda i giovani autoctoni marginali e in particolare i giovani meridionali, così come in Francia i figli di immigrati maghrebini, in Germania i figli di turchi, in Inghilterra i giovani neri e negli Stati uniti i giovani ispanici e neri. Il degrado delle società di origine, la diffusione dei modelli devianti, la nuova transnazionalizzazione delle mafie e la globalizzazione dell'intreccio tra attività informali e illegali favoriscono questo fenomeno, cioè producono spacciatori di strada, prostitute, devianti ma anche "professionisti". Ma sono innanzitutto i meccanismi che ostacolano l'inserimento regolare e spingono verso l'esclusione sociale se non verso la criminalizzazione e l'autocriminalizzazione a fare dei giovani migranti di oggi i nuovi dannati delle metropoli. Così come i proibizionismi hanno prodotto solo vantaggi per la criminalità organizzata e tragedie per i più deboli, oggi il proibizionismo che colpisce le migrazioni e l'esclusione sociale producono e riproducono la criminalizzazione e l'autocriminalizzazione di quei giovani che spesso fuggono il loro paese d'origine con l'illusione di accedere all'emancipazione. * sociologo, autore di "Polizia post moderna" (Feltrinelli 2000)