il manifesto - 08 Febbraio 2004

RITI
Il corpo dell'Occidente
ROSSANA ROSSANDA
Carla Pasquinelli, antropologa che ha a lungo lavorato sul campo, ci avverte: siete davanti a milioni di bambine il cui spazio ha due sole uscite, la prima conduce a un pulito ambulatorio dove un medico applicherà con delicatezza la «sunna» (poche punture di spillo) al suo giovane sesso, l'altra a un tavolo di cucina dove le sarà recisa la clitoride o forse le grandi labbra, senza anestesia sarà tagliata e ricucita, mutilata e sigillata per il resto della vita. In quello spazio, che non puoi permetterti di ignorare, una terza porta non c'è. Che fate? E' chiaro che si sceglie la spilla. L'antropologa aggiunge: i rituali di passaggio alla pubertà non stanno a sé, separati da un sistema di poteri sociali ed economici e ideali profondamente interiorizzati. Non solo dagli uomini ma anche dalle donne, che possono sentirsi private dall'infibulazione o dal rito di passaggio come da un diritto; donne che per tradizione possono vedere il corpo femminile come mal fatto, oscenamente aperto, più bello se chiuso, ricucito. Chi ci permette di negare questa realtà se non l'arroganza di una civiltà che si sente superiore?

L'antropologa continua: badate che la pratica della «sunna», difendendo il rito ma escludendo ogni mutilazione o ferita, sta già producendo in diversi paesi dei movimenti che contestano ruoli sessuali e di potere senza dover cozzare subito su quella potente costrizione simbolica sulla quale (e anche più sotto l'urto brutale della modernizzazione) poggia una identità. La cui negazione dall'esterno o per legge può produrre lacerazioni gravi e fin regressioni. E' vero. Ne è una prova quel che sta avvenendo a Parigi con lo strappo legiferato del velo.

Di tutto questo occorre tener conto, altrimenti vuol dire che, a forza di essere bombardati dall'immaginario, non riusciamo più a immaginare la realtà. Ma qui mi fermo. Della realtà fa parte anche il senso del rito, che non è neutro e può non essere innocente - né sotto il profilo dell'inviolabilità del corpo, specie quello femminile, che stiamo conquistando con fatica anche da noi, né sotto il profilo simbolico. Sul primo punto stento a seguire Carla Pasquinelli quando assimila al battesimo o alla circoncisione i riti più o meno violenti della pubertà. Nel battesimo l'affettuosa acqua non segna il corpo, fa di uomini e donne seguaci di Cristo senza alcuna superiorità o inferiorità fra loro. La circoncisione, che deve avere un'origine igienica, è invasiva, il bambino ne patisce ma - se la percepisce - la vive come una crescita di dignità, un diventare uomo ed eletto, è rassicurante ed esaltante del suo io. L'infibulazione o l'escissione no, può anche essere accettata ma, oltre alla tremenda lesione fisica, è vissuta come una correzione dell'imperfetta natura femminile e della superfluità del suo piacere o desiderio. Temo che non esistano riti di passaggio alla pubertà, anche meno violenti, che non abbiano per maschio e femmina questa opposta valenza. La riduzione delle mutilazioni genitali femminili alla «sunna» ne mantiene il senso simbolico.

E questo può essere capito ma non accettato. Capisco anche che ci si avverta di andare con i piedi di piombo in questi dedali delle soggettività e delle caratteristiche identitarie, non che vi si aggiunga: in queste non è lecito intervenire.

Mi trovavo in Messico dopo la grande protesta delle Olas contro «l'imperialismo culturale» americano, ma visitando con i compagni sociologi le culture indias vi vedevamo così manifeste tracce di potere del maschio sulla femmina e di certi maschi sui maschi, delle quali è impossibile dire che sono rispettabili se non per essere secolari. Non le rispetto qui, dove vigono in forme astratte, perché devo accettarle là? Altra cosa è ammonire che un mutamento di parametri culturali non si impone, altra è sostenere che quel che è diventato una cultura è sempre prezioso. Il relativismo culturale predicato dal Mauss (cfr. Raimundo Panikkar sul primo numero della rivista Mauss, Bollati Boringhieri, 2004) non mi persuade. Ci può essere un disegno, perfino una «armonia» in un universo di disuguaglianze radicali di status, ma resta un universo di oppressi e di oppressori. Di corpi di prima e di seconda categoria.

A questo dico di no. Cercare un senso irriducibile dell'umano è difficile, può essere fin tragico, va fatto con un forte sguardo critico su di sé, ma è un punto dell'«occidente» che tengo fermo.