il manifesto - 04 Febbraio 2004
Fadela Amara: la prigionia e il ripiego delle donne sull'islam
Fadela Amara, la fondatrice di Ni putes ni soumises, ha pubblicato un libro che porta il il nome del movimento come titolo (con la collaborazione di Sylvia Zappi, ed. La Découverte, 155 pag., 12 €), dove racconta la propria storia e parla della situazione delle ragazze nelle banlieues difficili. Nata in Auvergne da una famiglia di origine algerina, Fadela Amara ha militato in Sos Racisme prima di avviare la Marcia delle donne contro i ghetti per l'eguaglianza, un anno fa, come risposta all'assassinio di Sohane, una ragazza di 17 anni, a Vitry sur Seine. «Dalla metà degli anni `90 - scrive - ho notato con inquietudine crescente la violenza che aveva cominciato a diffondersi nei quartieri, accompagnando la loro decomposizione sociale. Ma la cosa più terribile è stato vedere un numero sempre maggiore di ragazzi prendere possesso del corpo delle ragazze. La conseguenza di questa deriva è stata, per esse, una vera e propria prigionia». La reazione delle ragazze, spiega Fadela Amara, è stata di tre tipi: le «sottomesse», che hanno interiorizzato il ritorno alle «tradizioni retrograde patriarcali», le «mascoline» che hanno adottato la violenza dei ragazzi e le «trasparenti» che cercano di crescere senza farsi notare, con la speranza di andarsene (grazie alla scuola, in particolare). «Tra le ragazze delle cités - scrive - si trovano in seguito quelle che si giocano il riconoscimento in una sorta di ripiego comunitario e in particolare in un ritorno identitario all'islam. Alcune di esse portano il velo volontariamente, in uno spirito di pratica religiosa. Ma altre hanno subito delle pressioni». Ci sono ragazze che hanno fatto la scelta del ripiego religioso e che «portano il velo come uno stendardo». «Ma numerose ragazzine, messe a confronto con l'impossibilità di assumere la loro femminilità, lo portano soprattutto come un'armatura destinata a proteggerle dall'aggressività maschile. Difatti, quelle che portano il velo non sono mai importunate dai ragazzi, che abbassano la testa di fronte a loro; velate, diventano intoccabili ai loro occhi. La maggior parte di queste ragazze che portano il velo per proteggersi, lo tolgono quando escono dalla cité. Hanno sempre una borsa, nella quale possono metterlo e anche infilarvi la trousse per il trucco - le chiamano «le ragazze con la sporta». Sotto l'armatura, portano abiti aderenti, scollati, ma non devono farsi vedere nella cité. E' terribile da immaginare in un paese libero. Infine, terzo esempio di donne che portano il velo: sono quelle che chiamo i «soldati del fascismo verde». Si tratta in generale di ragazze che hanno fatto degli studi e che, dietro questa storia del velo, si battono a favore di un progetto di società pericoloso per la nostra democrazia. Non sono delle ragazzine con difficoltà psicologiche, in situazione di debolezza e alla ricerca dell'identità, che porterebbero il velo perché assicura loro un riconoscimento, significando l'appartenenza a una comunità. No, sono delle vere militanti! (...). Mi disturba sentire il loro discorso sulla libertà di espressione perché dietro questo simbolo si profila un progetto di società diverso dal nostro: una società fascistizzante, che non ha nulla a che vedere con la democrazia». (A. M. M.)