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L'amara lezione delle banlieues

Le violenze scoppiate nelle periferie delle città francesi mostrano il fallimento del modello francese d’integrazione. La lezione, però, è anche un’altra: in tutta Europa manca la volontà politica di risolvere con mezzi adeguati e intelligenza i problemi posti dall’immigrazione.

Le recenti violenze che hanno scosso le banlieues francesi non potevano raffigurare meglio il fallimento di un’idea. Un paese che si ispira al motto Liberté, Egalité, Fraternité ha assistito, impotente, alla rivolta dei ghetti nei quali ha confinato i figli dei suoi immigrati; un governo che, all’Unesco, si batte per il rispetto della «diversità culturale», si è mostrato incapace di far valere, in patria, ciò che pretende di esportare nel resto del mondo; una Repubblica nata per cicatrizzare una guerra virulenta e colonialista, non è riuscita a fare altro, di fronte alle scorribande di giovani maghrebini, neri, turchi, che decretare lo stato d’urgenza come nel 1955, riesumando una legge approvata, appunto, durante la crisi d’Algeria. Ad andare in frantumi, nelle folli notti di banlieue, non sono state solo le automobili incendiate ma anche il modello francese di integrazione degli immigrati. «La concezione di una nazione completamente omogenea non corrisponde più alla realtà», spiega il sociologo Franck Fregosi (vedi intervista nella pagina seguente).

Certo, le bande che hanno messo a ferro e fuoco la periferia di Parigi e di tutte le principali città d’Oltralpe non avevano un progetto chiaro. La rivendicazione sociale si è mescolata alla cretineria, la contestazione delle istituzioni repubblicane non è riuscita a prendere la distanza dalla criminalità bella e buona di chi, ad esempio, ha dato alle fiamme un autobus su cui si trovava una donna handicappata, ora ricoverata in ospedale per le ustioni. Difficile provare simpatia per chi ha distrutto l’habitat di una popolazione di banlieue già afflitta da troppi stenti, impossibile giustificare chi ha preso a pretesto la morte di due adolescenti folgorati in un trasformatore elettrico, mentre sfuggivano ai controlli vessatori della polizia, per spargere il terrore nonostante le proteste degli stessi genitori dei due ragazzi. Così come non si può ignorare che molte delle violenze sono scattate per noia, spirito bovino di emulazione, contagio mediatico. Eppure un dato è innegabile: folle di ragazzini emarginati e dimenticati sono riusciti a far uscire dalla periferia la derelizione sociale in cui vivono e ad imporla al centro dell’agenda politica francese ed europea, sotto la lente d’ingrandimento dei giornali di tutto il mondo.

Forse era necessario per far uscire dal torpore una classe politica distratta. Perché se le violenze di banlieue sono servite per denunciare la scarsa tenuta del modello d’integrazione francese, la principale lezione è però un’altra: l’inettitudine della politica ad affrontare le vere questioni. Bastino due esempi. Il primo, un libro scritto dal presidente francese Jacques Chirac nel 1995, quando era ancora sindaco di Parigi e preparava l’ascesa all’Eliseo. «Nelle banlieues diseredate – scriveva dieci anni fa Chirac – regna un terrore molle. Quando troppi giovani non vedono spuntare altro che la disoccupazione o piccoli stage a conclusione di studi incerti, finiscono per rivoltarsi. Per ora lo Stato si sforza di mantenere l’ordine e gli ammortizzatori sociali alla disoccupazione evitano il peggio. Ma fino a quando?». Sante parole.

A cui fanno eco, più di recente, le denunce della commissione Stasi, una squadra di esperti creata dallo stesso Chirac per studiare la crisi della laicità nella laicissima Francia. «È stato segnalato alla commissione che in settecento quartieri, in cui vivono numerose nazionalità, le difficoltà si accumulano: disoccupazione al 40%, problemi acuti di scolarizzazione, allarmi sociali tre volte più alti che nel resto del territorio», affermava nel 2003 il rapporto conclusivo. «Gli abitanti di questi quartieri abbandonati hanno la sensazione di essere vittima di una relegazione sociale che li condanna al ripiegamento su se stessi. Questo è, in particolar modo, il caso dei più giovani», continuava la commissione Stasi, per concludere che il velo che alcune ragazze musulmane indossano «offre loro, paradossalmente, la protezione che dovrebbe essere garantita dalla Repubblica». Paradossalmente, di quelle raccomandazioni Chirac ha recepito solo il consiglio – peraltro espresso dalla commissione in termini problematici – di vietare il velo nelle scuole pubbliche. Paradossalmente, le amministrazioni comunali francesi si sono viste tagliare, negli ultimi mesi, le dotazioni di agenti di sicurezza, mediatori sociali, sovvenzioni pubbliche alle associazioni di quartiere. Nella finanziaria per il 2005, da ultimo, sono saltati 310 milioni di euro che erano stati inizialmente previsti per le case popolari di banlieue.

Difficile, allora, prendere sul serio appelli alla calma e promesse di intervento dei politici francesi. E difficile anche non provare un senso di fastidio per un sedicente profeta dei nostri tempi come il premier britannico Tony Blair, che si è detto «inquieto» di fronte alle immagini televisive delle violenze francesi. Con un suggerimento, neanche tanto velato, al fatto che il «modello britannico», fondato sulla convivenza di comunità etniche diverse, sia migliore di quello francese, modellato su un’integrazione forzata agli ideali repubblicani. «Ogni società, tenuto conto della sua storia, della sua cultura e della sua psicologia collettiva, ha sviluppato meccanismi d’integrazione in cui si possono trovare punti di forza e di debolezza», ha scritto Tariq Ramadan sulle colonne di Le Monde. Più che domandarsi se sia meglio il modello british o quello francais, afferma il controverso islamologo, «quello che dovrebbe interessarci di più è l’analisi di certe somiglianze che, nei termini dei dibattiti o nelle politiche governative, provocano in queste due società (e altrove in Europa) tensioni sociali, culturali e religiose».

C’è da sperare che i politici francesi, britannici (e domani, quando i figli dei nostri immigrati popoleranno le nostre periferie, anche i politici italiani) accolgano questo invito. Per ora l’unica – singolare – coincidenza a cui si assiste sulle due rive della Manica è un’altra. Dopo gli attentati di matrice islamista che hanno colpito Londra, a luglio, Blair ha presentato un pacchetto di misure anti-terrorismo. Tra di esse – nonostante i kamikaze che si sono fatti esplodere nella metropolitana londinese fossero, sì, figli di immigrati, ma cittadini britannici – la proposta di espellere gli stranieri che «predichino l’odio o promuovano il terrore». Un’idea che fa il paio con un recente annuncio del ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy, che ha ordinato «l’espulsione immediata» degli stranieri coinvolti negli scontri delle banlieues. Solo 120 persone sulle 1.800 fermate in quei giorni. Solo una goccia d’acqua in un mare di malessere che alligna non tra gli stranieri, ma tra i francesi di origine immigrata. Ma tant’è: in Europa quando non si è riusciti ad integrare gli immigrati, l’unica soluzione, pare, è rimandare a casa gli stranieri.

Iacopo Scaramuzzi

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