''Brucio tutto, quindi esisto'' La voce delle banlieue - Annamaria Rivera
 


di Annamaria Rivera

 ''Brucio tutto,  quindi esisto''
La voce delle  banlieue


«Non siamo feccia ma esseri umani. Esistiamo. La prova? Le auto bruciano». Così, con una frase epigrafica, un sauvageon intervistato da “Le Monde” ha riassunto il senso della rivolta dei ghetti che infiamma l’autunno francese. La tendenza a vedere l’ombra degli imam dietro ogni rivendicazione delle banlieues, l’accusa di comunitarismo che da anni è rivolta ossessivamente a qualunque minoranza esiga riconoscimento e rispetto, ma soprattutto alla racaille (la feccia, secondo Sarkozy) dei quartieri detti sensibili, si rivelano oggi per ciò che sono: paura che i discendenti dei colonizzati, cittadini francesi de jure ma trattati de facto al pari degli indigeni delle colonie, decidano di esistere come esseri umani, rompendo il muro della segregazione e rendendosi visibili nello spazio pubblico. Oggi lo fanno, certo, nella maniera più scomposta possibile, affidando agli atti di vandalismo la funzione di dire ciò che per ora forse non si può dire altrimenti: per troppo tempo la parola è stata loro confiscata. In modo “irresponsabile”, secondo la maggior parte degli osservatori e dei politici, di destra e di sinistra, occupano lo spazio mediatico e dunque politico: finora inaccessibile, estraneo, interdetto. Nel tempo in cui i media fanno e disfanno la realtà, essi, conquistandone la scena, fanno vacillare un ministro che alcuni già vedevano presidente della repubblica. I sauvageons, i selvaggi evocati da Chevenement nel ’98, quando era ministro dell’interno, i “piccoli terroristi di quartiere” che Sarkozy voleva domare con gli strumenti dell’antiterrorismo, i voyous (i teppisti) dai quali sanificare i quartieri popolari con acidi corrosivi, come osa ripetere lo stesso ministro, costringono la politica ad occuparsi di loro: una politica finora lontana come la luna dalle spettrali cités, gestite per lo più come le vecchie colonie.


Certo, le risposte finora non sono rassicuranti: sfrondando le promesse dalle fumosità e dalle vaghezze, ciò che rimane sono il coprifuoco, il fermo indiscriminato di centinaia di bambini, adolescenti, ragazzi sospettati di aver partecipato alla rivolta, l’idea d’espellere gli stranieri condannati per le violenze urbane, anche quelli con permessi di soggiorno di lunga durata, la proposta di abbassare l’obbligo scolastico a 14 anni e rendere possibile l’avviamento al lavoro della fascia dai 14 ai 16: in modo subdolo e paternalistico, la grande questione sociale che la rivolta ha denunciato è tradotta nella condanna definitiva dei giovani delle 752 “zone urbane sensibili” al loro destino di reietti.


Per analizzare il meno banalmente possibile le radici e il senso della rivolta dei ghetti francesi, del tutto vana è l’antinomia fra “economicismo” e “culturalismo” che qualche commentatore dotto ha avanzato polemicamente. La condizione nelle cités non potrebbe essere più esemplare a mostrare il perverso circolo vizioso che lega questione economico-sociale, razzismo coloniale, “modello d’integrazione”, risposta identitaria, etnicizzazione del conflitto. Al punto che, se c’è una categoria che può restituire il senso della condizione degli “indigeni della repubblica” è quella di casta, riproposta di recente dalla sociologa femminista Christine Delphy, che la intreccia con quelle di classe e di genere; e accolta da chi scrive in un libro appena uscito (La guerra dei simboli. Veli postcoloniale e retoriche sull’identità, Dedalo). In effetti, per gran parte dei figli e nipoti dell’immigrazione coloniale non v’è possibilità né speranza di mobilità sociale: essi sembrano condannati ad ereditare lo status dei loro genitori o nonni, o addirittura ad essere ulteriormente declassati. Il fatto stesso che questi cittadini/e francesi siano detti immigrati/e di seconda o di terza generazione è indizio di come il razzismo coloniale trasformi uno status, che per definizione dovrebbe essere situazionale e transitorio, in una caratteristica quasi-biologica ed ereditaria. Intervistato da Libération, un giovane banliuesard ha icasticamente dichiarato: “Ci parlano d’integrazione, ma noi siamo francesi, non abbiamo bisogno d’essere integrati. Abbiamo bisogno d’essere inseriti socialmente”. Ma quale inserimento sociale è possibile quando, come ha rilevato un’inchiesta, chi abbia un cognome che suona arabo o africano ha 6 volte in meno la possibilità d’essere convocato per un colloquio di lavoro, rispetto a un suo coetaneo franco-francese?


Se una tale condizione di discriminazione, emarginazione e segregazione è dai più considerata come naturale è anche perché all’immaginario collettivo francese non sono estranei un’ideologia o almeno un inconscio di tipo coloniale, spesso mascherati dal retorico richiamo alla vocazione universalista della patria dei diritti dell’uomo. L’ombra del razzismo coloniale, del resto, s’allunga sulla stessa “gestione” della rivolta di questi giorni: lo stato d’emergenza e il coprifuoco sono stati proclamati invocando una legge del 1955 risalente alla guerra d’Algeria.


La rivolta dei ghetti francesi mostra che il re è nudo: contribuisce a palesare che la retorica universalista è oggi una delle maschere del dominio. Il modello detto d’integrazione repubblicana, fondato sul riconoscimento dei diritti individuali universali, palesa tutte le sue crepe al pari del modello multiculturalista all’anglosassone. Il fuoco appiccato nelle cités consuma l’illusione dell’assimilazione senza inserimento sociale. Ed esalta un paradosso, nel modo più derisorio possibile: due modelli d’integrazione che si vogliono opposti producono effetti sociali comparabili e la medesima forma di rivolte urbane. Le istituzioni e la cultura mainstream francesi hanno sempre apertamente disprezzato il modello statunitense come produttore di ghetti, continuamente evocando e stigmatizzando il fantasma del “comunitarismo”. Ebbene, per decifrare il senso della rivolta delle banlieues, la comparazione più opportuna è quella con le rivolte dei ghetti neri statunitensi. Con una differenza, rilevata da Furio Colombo in un lucido editoriale: in occasione dell’incendio di Watts (1964), di Washington (1968) fino a quello di Los Angeles (1992), a nessun politico o giornalista venne in mente d’insultare i rivoltosi.


Chi ha deriso Prodi per le sue parole lungimiranti dovrebbe fermarsi a riflettere. Un modello di welfare state come quello francese, tanto più solido e universale che in altri paesi europei (per non parlare dell’Italia!), si frantuma sotto i colpi della globalizzazione neoliberista ma anche dei ciechi automatismi della discriminazione e del razzismo coloniali, tanto da produrre ghetti e rivolte urbane. Là dove le politiche di protezione sociale sono più deboli o inesistenti, dove le sacche d’emarginazione e d’esclusione –d’immigrati e autoctoni- sono da periferie del Terzo mondo, dove il disprezzo e il pubblico insulto contro gli estranei al modello whasp all’italiana sono pratica istituzionale, perché ci si dovrebbe sentire preservati dal rischio delle rivolte urbane?


Ben più lungimirante, il Consiglio d’Europa, in un lungo rapporto del 2004 sulla violenza nelle società democratiche, metteva in guardia dal rischio della disintegrazione sociale: un numero crescente di persone, scriveva, è intrappolato una specie di no man’s land sociale, che rischia di divenire ghetto. L’esclusione, soggiungeva, non è il risultato di incapacità individuali o di inadattamento sociale, ma di un processo di allontanamento di una parte della popolazione dalla sfera produttiva. Che almeno si cominci a prestarle ascolto, riconoscimento e rispetto.     


     


“Liberazione”, 12 novembre 2005, p. 3


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