Appunti di Giornalismo interculturale 1/2009

LE BAMBINE ROM? AL MURO... DEL PREGIUDIZIO
a cura di Maurizio Corte - Verona, gennaio 2009

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Su un giornale locale il 13 dicembre 2008 abbiamo potuto leggere quanto segue: "Hanno soltanto 8 e 10 anni, ma un curriculum di tutto rispetto considerato che sono già state prese, e più volte, per furto. Sono due bambine nomadi cresciute troppo in fretta, verrebbe da dire se si facesse psicologia spiccia. Diventeranno due donne senza troppi scrupoli visto che già a quest’età entrano ed escono dalle case altrui dopo aver rotto i vetri delle finestre, le mettono sottosopra, rubano tutto quello che trovano e si dileguano senza battere ciglio dimostrando una determinazione e un sangue freddo degno di pochi. Negli ultimi 15 giorni queste due bambine hanno messo a ferro e fuoco i paesi di B. e P., entrando in sette case dopo averle 'monitorate', da sole o con l’appoggio di qualche adulto. Sceglievano abitazioni al piano terra più facili da violare e in caso di fuga meno difficoltose da abbandonare in fretta. Le hanno prese i carabinieri di P. dopo aver svolto un’indagine alla vecchia maniera".
Non indichiamo il giornale su cui l'articolo è stato pubblicato per una ragione semplice: la stessa notizia potremmo trovarla in un quotidiano o settimanale della Sicilia piuttosto che del Friuli Venezia Giulia. Sarebbe, poi, fuorviante criticare l'autore di un articolo o di una testata giornalistica "personalizzando" il problema di come si fa informazione quando il protagonista della notizia è qualcuno “diverso” da noi, è in condizione di svantaggio o appartiene a una categoria sociale o etnica etichettata come "pericolosa socialmente". Il problema è un altro, ben più serio e ben più profondo. Il problema sta nel rapporto fra noi giornalisti e le fonti, da un lato; e nel "contratto di lettura" fra noi giornalisti e i lettori, dall'altro. Oltre a questi due problemi, che investono la professionalità e l'azione del singolo giornalista, vi è una questione altrettanto delicata e urgente: quella della "notiziabilità" dei fatti, dell'importanza loro attribuita dai giornali e dalle redazioni.
Cominciamo con il rapporto fra i giornalisti e le fonti. Va ricordato, innanzi tutto, che i giornalisti di rado assistono a quanto raccontano, specie se i fatti appartengono a quell'ambito che viene chiamato "cronaca nera". Noi giornalisti raccontiamo quanto le fonti - carabinieri, polizia di stato, polizia locale, guardia di finanza, magistratura e via dicendo - ci dicono di raccontare. Possiamo chiedere spiegazioni alle fonti. Possiamo rilevare eventuali contraddizioni nel racconto che ci viene fatto o individuare imperfezioni piuttosto che esagerazioni. Ma è chiaro che noi dipendiamo dalle nostre fonti.
Con le fonti abbiamo spesso un rapporto fiduciario, le frequentiamo, ne siamo in qualche modo condizionati, vuoi nel linguaggio, vuoi nella "visione dei fatti", vuoi anche nella libertà di movimento, di scrittura, di critica. E' normale che le fonti cerchino di gestire noi giornalisti, per raggiungere i loro obiettivi di comunicazione. Il prezioso lavoro svolto dalle forze dell'ordine aspira, e si tratta di aspirazione legittima e comprensibile, a ottenere visibilità nei media. Sta a noi giornalisti filtrare quanto ci viene detto, avanzare richieste di maggiori informazioni, produrre osservazioni o critiche alle versioni dei fatti e, infine, dare il peso che riteniamo giusto al fatto che ci è raccontato.
Come viene spiegato agli studenti di giornalismo, le "notizie" non sono "fatti": esse sono un racconto dei fatti, sul quale intervengono (in modo inevitabile) azioni di semplificazione, di distorsione involontaria, di sintesi e di ricontestualizzazione narrativa di quanto è accaduto. Le indagini del carabinieri sulle due ragazzine sorprese a rubare nelle case, debbono essere durate giorni, settimane; con appostamenti e testimonianze, con pazienti indagini "alla vecchia maniera", come viene definito il tradizionale e collaudato modo di operare dei carabinieri. La traduzione di quelle indagini, di quella fatica, in un articolo di giornale o in un servizio televisivo ha comportato una sintesi necessaria e impietosa di tanti particolari: una sintesi operata prima dalla fonte, e poi dal giornalista stesso che non racconta tutto quanto gli viene detto, ma seleziona i particolari, gli aspetti, i fatti che ritiene interessanti per il lettore.
Le notizie, va ribadito, non sono fatti e spetta al giornalista valutare quali fatti raccontare, facendoli diventare notizie, e quali fatti invece scartare, perché non considerati meritevoli di attenzione e diffusione. La notizia, insomma, non è tale “di per sé”, in modo oggettivo. In essa, anzi, vi è molto di soggettivo, di parziale, di discrezionale. Certo, gli studenti di giornalismo e gli addetti ai lavori sanno che nei giornali sono applicati alcuni criteri per selezionare un fatto, per decidere se è meritevole di diventare notizia: la sua originalità, il rompere lo scorrere delle cose; il vedere coinvolto o l'interessare un gran numero di persone; l'avere un carattere "pubblico", sociale; il promettere sviluppi interessanti; il toccare e l'influenzare la vita delle persone, e via dicendo.
Non offendiamo nessuno, se paragoniamo il lavoro del reporter a quello della zia che abita in un paesino di campagna ed è solita spettegolare sui vicini: anche lei ha il "fiuto della notizia" e sceglierà non i fatti ripetitivi (il parroco che ogni domenica celebra la messa), ma quelli che sono bizzarri, originali, e che rompono il corso normale delle cose (il parroco in fuga d'amore con una parrocchiana, ad esempio).
Detto questo, ci possiamo tutti chiedere: perché un giornale sceglie di aprire una pagina di cronaca locale su due bambine, cosiddette "nomadi", che hanno rubato in pochissime case di pochissime famiglie di un paesino di provincia? Perché non ci dà la notizia di quante centinaia o migliaia di famiglie sono state rovinate, nei loro risparmi, a causa della politica finanziaria dissennata di un amministratore delegato della banca cittadina, che ha bidonato i clienti e gli azionisti con investimenti in titoli "tossici"? Come mai sono considerate e presentate come "socialmente pericolose", quasi al massimo grado, quasi fossero delinquenti professioniste, due bambine; mentre nulla si dice della pericolosità sociale dell’amministratore delegato o del presidente di una certa banca che ha stretto affari con una famiglia in odore di mafia? Sono più pericolose due bambine che hanno rubato soldi e ori in una decina di case o il banchiere che ha “rubato” in migliaia di case? Se è vero che rompere i vetri delle case con perizia rende le due bambine future donne "senza scrupoli", come dobbiamo definire il banchiere che ha studiato negli Usa il modo per rompere i salvadanai di pensionati, lavoratori, imprenditori, professionisti, riducendoli sul lastrico o comunque depauperandoli in modo consistente?
Le forze dell'ordine fanno il loro mestiere, e hanno i loro buoni motivi per "vendere" il prodotto-bambine-nomadi all'opinione pubblica, a dimostrazione del lavoro che fanno a beneficio della comunità. Noi giornalisti, però, facciamo un altro mestiere: siamo noi a dover decidere chi e che cosa raccontare alla pubblica opinione. Nulla e nessuno può imporci la scelta di sbattere il banchiere in prima pagina; nulla e nessuno può imporci di criminalizzare due bambine che rubano nelle case. La scelta che facciamo è molto soggettiva, molto "creativa" (per dirla con Altheide, "Creare la realtà. I telegiornali in America: selezione e trattamento delle notizie", Rai-Eri, 1985). Nulla di oggettivo e nulla di scientifico. Questo deve essere chiaro, per poter discutere e criticare l’agenda dei fatti che un certo giornale o tv presenta ai giornalisti: non siamo di fronte a uno “specchio della realtà”, ma a una sua costruzione (o ri-costruzione) mediatica. Si tratta di una vera e propria “messa in scena”, dove la scena è quella dei media, dove gli spettatori sono i lettori-ascoltatori e dove il regista è il direttore del giornale e gli attori sono i giornalisti che danno visibilità a persone, accadimenti, situazioni.
Veniamo ora al rapporto fra noi giornalisti e i lettori. Il contratto di lettura con i lettori, con il pubblico, ci dovrebbe imporre la massima trasparenza sia sulle fonti da cui attingiamo i racconti dei fatti che trasformiamo in notizie, sia sul nostro modo di lavorare. I colleghi giornalisti americani inseriscono a ogni pie' sospinto "police said, police said, police said". E' la polizia - nel nostro caso i carabinieri - che ci dice cosa è successo, chi sono i protagonisti dei fatti, quali giudizi possiamo articolare con fondatezza su quei protagonisti. Sta a noi giornalisti credere o non credere alla polizia: nel 1950, Tommaso Besozzi non credette, ad esempio, alla versione che i carabinieri diedero della morte del bandito Giuliano ( si veda www.ilcassetto.it/notizia.php?tid=148 con il testo dell'articolo di Besozzi comparso sul settimanale L'Europeo il 16 luglio 1950). E fece bene. Era falsa. Fra la realtà raccontata dalle fonti e i lettori, con cui abbiamo un patto tacito di correttezza e imparzialità narrativa, ci siamo noi, i giornalisti, i "mediatori". Nostro è il dovere di dire al lettore: "Caro lettore, io ho raccolto l'informazione in questo modo, da questa fonte, e l'ho trattata in quest'altro modo, per potertela spiegare al meglio". E' quella che si chiama "trasparenza giornalistica", che è uno dei fondamenti della "scienza del giornalismo", come viene chiamata dagli studiosi (si vedano Kovach-Rosenstiel, I fondamenti del giornalismo. Ciò che i giornalisti dovrebbero sapere e il pubblico dovrebbe esigere, Lindau, 2007).
I mediatori sono soggetti che sono riconosciuti come capaci di porsi in mezzo fra due poli che comunicano - i fatti e i lettori – proprio in virtù della loro imparzialità. Un mediatore parziale non è un mediatore, è una parte in causa, sta dall'una o dall'altra parte. Se i giornalisti sono i mediatori (come ci ricorda un maestro del giornalismo, Lepri, Professione giornalista, Etas Libri, 2005), allora debbono prendere le distanze dalle fonti e, si badi bene, anche dai lettori. Non dobbiamo farci influenzare dalle fonti, perché le fonti non hanno il nostro ruolo sociale di comunicatori al servizio dei lettori: le fonti servono i loro legittimi interessi, e basta. Non dobbiamo neppure farci influenzare dai lettori, piegando il racconto dei fatti (le notizie) a seconda del gusto del lettore.
Ma come, si dirà, il giornalista non è al servizio del lettore? Sì, lo è. Il nostro "padrone in redazione" è il lettore, non è l'editore che ci dà lo stipendio, checché ne pensino gli editori. Essere al servizio del lettore non significa, però, scrivere quanto il lettore vuole farsi raccontare, ignorando o tradendo i fatti. Sia chiaro, l'arresto di due bambine che rubano può essere una notizia e può essere un nostro servizio al lettore raccontargli il fatto e dirgli: "Caro lettore, i carabinieri mi hanno detto che hanno arrestato due bambine che rubavano nelle case, con l'aiuto di adulti. Le hanno trovate con un sacco di soldi e in questo, quest'altro e quest'altro ancora modo, sono arrivati a scoprirle e ad assicurarle alla giustizia". Allo stesso modo, possiamo scrivere: "Caro lettore, il banchiere dal curriculum molto americano che ha guidato la tua banca negli ultimi sei anni, è quello che ha pianificato e condotto l'alleanza con un gruppo di banchieri svizzeri chiacchierati per presunte amicizie mafiose. Proprio grazie a quei banchieri, la banca della tua città ha subìto un ammanco di un tot di milioni di dollari, mentre la clientela che aveva investito nei titoli consigliati da quei signori svizzeri ci ha rimesso alcune decine di milioni di dollari. Questo mi è stato raccontato da XY, è emerso nel corso delle indagini sul caso Z e via dicendo".
Come mai si sceglie di dare la prima notizia, enfatizzando la pericolosità sociale delle protagoniste; e non si dà la seconda, enfatizzando la pericolosità sociale del banchiere? I motivi sono molti, non ultimo il fatto (si veda McQuail, Sociologia dei media, Il Mulino, 2007) che i media tendono a servire gli interessi del sistema sociale e politico di cui fanno parte, a confermarne e a difenderne i valori. Nulla di nuovo, in questo. Di nuovo, in alcuni casi, vi è la rinuncia dei giornalisti a svolgere il loro compito di narratori imparziali; il loro diventare altoparlanti di alcuni canali della notiziabilità, e il loro sottomettersi al silenzio di altri canali della non-notiziabilità. Eppure, l'interesse del lettore ci dovrebbe guidare a riferire entrambi i fatti: i furti delle bambine e i furti del banchiere. L'interesse del lettore, e il rispetto della deontologia professionale, ci dovrebbero far scegliere di non criminalizzare i minori, di non articolare giudizi pesanti che, oltre a essere ridicoli, sono "pregiudizi", violazioni della dignità della persona, del diritto di un minore a poter diventare una adulto consapevole e onesto, anche se in un certo momento della sua vita ha commesso degli errori. Se dovessimo usare lo stesso metro, dovremmo commentare così la notizia sul banchiere ladro: "Ha meno di 50 anni, ma un curriculum di tutto rispetto considerato che ha già ingannato, e più volte, migliaia di risparmiatori con affari fallimentari. E' un banchiere cresciuto troppo in fretta nell’università americana dei soldi facili e subito, verrebbe da dire se si facesse psicologia spiccia. Diventerà un anziano banchiere senza troppi scrupoli visto che già a quest’età ha stretto legami d'affari con una famiglia di banchieri svizzeri in odore di mafia, visto che ha ingannato correntisti e azionisti senza battere ciglio dimostrando una determinazione e un sangue freddo degno di pochi. Negli ultimi anni questo banchiere ha messo a ferro e fuoco la banca di XYZ, conducendola in affari poco chiari e di dubbio guadagno, da solo o con l’appoggio di qualche banchiere par suo. Sceglieva titoli più facili da piazzare all'ignara clientela e grazie alle cronache compiacenti dei giornali ha agito impunemente, ecc. ecc.". Sarebbe un resoconto serio, rispettoso del lettore, questo sul banchiere delinquente? No, non lo sarebbe.
Sarebbe un resoconto accecato dal pregiudizio, intriso di astio verso il protagonista della notizia, mirato ad assecondare le volontà giustizialiste di avvocati e clienti truffati, più che l'intelligenza e la volontà di un resoconto onesto da parte del lettore.
Per chiudere, ma sul trattamento riservato ai bambini "cosiddetti nomadi" torneremo più volte in futuro, ricordiamo cosa dice la "Carta di Treviso", a protezione dei minori oggetto di attenzione da parte dei media, esprimendo precetti cui tutti noi giornalisti ci dobbiamo attenere: "il bambino deve crescere in una atmosfera di comprensione e per le sue necessità di sviluppo fisico e mentale ha bisogno di particolari cure e assistenza; in tutte le azioni riguardanti i minori deve costituire oggetto di primaria considerazione il maggiore interesse del bambino e che perciò tutti gli altri interessi devono essere a questo sacrificati". Criminalizzare dei bambini, peraltro prima di un processo, solo perché hanno rubato, è una palese violazione dello spirito della Carta di Treviso, approvata nel 1990. Rifugiarsi dietro l'anonimato dei bambini oggetto di notizia, identificandoli per la loro caratteristica di "nomadi" è poi addirittura peggio: vuol dire estendere l'etichetta criminale a tutti i bambini "nomadi". Chi si permetterebbe, mai, di estendere a tutti i banchieri l'etichetta di ladri e amici dei mafiosi?

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