GIORNALISMO IN STRADA: IL SUPERMARKET MULTICULTURALE

a cura di Maurizio Corte - Verona, 30 giugno 2007
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Fino a una dozzina di anni fa, quando lavoravo nella redazione cronaca del quotidiano “L’Arena”, era pratica comune – specie d’estate – scendere in strada e raccontare quanto si vedeva: intervistare la gente, prendere spunto da una curiosità per approfondirla, abbozzare contorni e colori delle situazioni che ad avviso del cronista meritavano di essere portate sul giornale. Nel fare questo, mi tornavano alla mente i servizi giornalisti che da ragazzo leggevo sul quotidiano “Il Giorno”, un giornale ben diverso da quello attuale, diretto allora da Gaetano Afeltra (erano i primi anni settanta) e con giornalisti del calibro di Marco Nozza e di Giorgio Bocca.
Con quello spirito di osservazione e con quegli interrogativi da “giornalismo in strada” – quello che guarda, domanda, confronta, chiede conto, si interroga e poi scrive – entro ogni volta in un supermercato a pochi metri da piazza Bra, il centro di Verona. E’ un supermercato aperto anche la domenica, dove vi sono moltissimi clienti di origine straniera e dove vi sono molte persone immigrate che fanno la spesa nel tempo lasciato libero dal lavoro. Capita allora di avere davanti, durante la coda alla cassa, un certo operaio che viene spontaneo classificare come “straniero”: maghrebino, dato il colore della pelle. Salvo poi scoprire che parla un italiano con fortissimo accento siciliano. Una delle cassiere mi ricorda le donne bulgare: potrebbe essere la sorella di una mia amica della Bulgaria, una informatica che lavora adesso a Londra. E’ invece una donna del sud, come molte sue colleghe.
Il “supermarket multiculturale” è un’ottima palestra per andare al fondo dei nostri stereotipi e dei nostri pregiudizi, per comprendere come dietro l’etichetta dell’immigrato vi siano persone, con le loro storie, le loro ansie, i loro vissuti e il loro impegno nel mondo. Capita spesso di sentire l’accento della gente del Sud d’Italia e allora ci si accorge di come il nostro Paese sia “multiculturale” prima ancora dell’arrivo di persone da altre nazioni. Capita di scambiare qualche cortesia o quale mala parola, e di accorgersi di come quella comunicazione – positiva o conflittuale – prescinda assolutamente dalla cultura di appartenenza. Lo stupore maggiore è quando, convinti che accanto a noi vi sia uno “straniero”, ci si accorge di come un gesto maleducato o di cortesia sia invece di un “italiano Doc”. Si comprende, allora, come in una situazione complessa e pluralistica vi sia il rischio di una visione stereotipata e pregiudiziale. Di come si rischi di trattare da “non persone” le donne e gli uomini che ci passano vicino facendo la spesa.
Fuori del supermercato stazionano talvolta uomini che devono vino. Chi sta mangiando e si prende una pausa; chi è dedito all’alcol. Mi è stato detto che alcuni clienti italiani evitano di frequentare il supermercato in alcune ore per evitare di misurarsi con il “degrado” rappresentato da quelle persone considerate “straniere”, fonte di insicurezza. Spesso sono persone italianissime, veronesi o del Sud, ma la nostra immagine dell’immigrazione come fonte di degrado ci porta a pensare che tutto sia legato alla presenza di “extracomunitari”.
Abbiamo indubbiamente una memoria corte, che i mass media si guardano bene dal correggere indugiando anzi nella conferma delle nostre visioni erronee della realtà. Situazioni simili di (presunto) degrado le si vedeva in alcuni quartieri di Verona e nello stesso centro città negli anni sessanta e settanta: tossicodipendenti, spacciatori, papponi, pregiudicati avevano decisamente l’accento veronese. Ora ce lo siamo dimenticato e pensiamo – rinforzati dalle notizie veicolate dai giornali (che dipendono dalle fonti ufficiali delle forze dell’ordine, tema su cui torneremo) – che il pericolo, il rischio, l’insicurezza, la devianza siano collegate alla “diversità culturale”, così come una visione aberrante pensa che vi sia un legame fra “diversità sessuale” (l’omosessualità) e la propensione alla pedofilia.
Sui giornalisti incombe una responsabilità non da poco. Specie quando evitano di entrare nel “supermercato multiculturale”, si mantengono a “distanza di sicurezza” dai fatti e rappresentano la realtà senza mediare, senza interrogarsi, senza osservare, ma in balìa delle fonti ufficiali (polizia, carabinieri, magistratura) e della “gente del posto”. E’ una rinuncia alla parte nobile della professione giornalistica: quella di interrogarsi e di andare oltre le apparenze.
Verona, 30 giugno 2007

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