L’ASSASSINIO “A SFONDO ETNICO”… E QUELLO “NO”

a cura di Maurizio Corte - Verona, maggio 2007 
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Il 5 maggio l’agenzia giornalistica Apcom pubblica questa notizia su un assassinio crudele compiuto in nome di una “giustizia etnica” che non merita alcuna comprensione, ma solo una ferma condanna.
IRAQ/ RAGAZZA LAPIDATA DAI FAMILIARI, IL VIDEO APPARSO SUL WEB La giovane, della comunità yazidi, amava un musulmano. Roma, 5 mag. (Apcom) - Sono apparse su internet le immagini video dell'atroce lapidazione di cui è rimasta vittima lo scorso 7 aprile Dua Khalil Aswad, una ragazza di 17 appartenente alla comunità religiosa degli yazidi, uccisa dai suoi familiari nel Kurdistan iracheno solo perchè si era innamorata di un ragazzo musulmano. Il fatto è avvenuto a Bashika, nei pressi di Mosul. Nel filmato, ripreso con un telefono cellulare, si vede la ragazza distesa in terra in mezzo a una strada, con alcuni uomini che la prendono prima a calci, e poi le scagliano una grossa pietra sulla testa. Il pestaggio dura alcuni minuti. Intorno ci sono anche agenti della polizia irachena che assistono alla scena senza intervenire. La ragazza, vestita con una giacca della tuta rossa e con della biancheria intima di colore nero, non oppone resistenza, e anche la folla che assiste - tra cui diverse persone che riprendono il tutto con i propri cellulari - non fa nulla per aiutarla. Il video è apparso la prima volta sul sito curdo Jebar.info, ed è stato poi rapidamente diffuso sul web. Tahsin Saeed Ali, l'emiro degli yazidi in Iraq e leader del Supremo consiglio spirituale della comunità, ha condannato l'uccisione della ragazza: «Hanno ucciso brutalmente una giovane ragazza yazidi, secondo un rituale tribale fuori del tempo». Ali ha anche invitato i musulmani a non cercare vendetta questo barbaro delitto d'onore. Anche il governo regionale del Kurdistan e il Comitato delle donne curde (KNC) hanno condannato l'episodio.
L’uccisione della giovane Dua Khalil Aswad riporta alla mente i casi che sono stati registrati di violenza alle giovani donne immigrate, di religione musulmana, da parte di familiari che non ne approvano la scelta “occidentale” di vivere, di vestire e di comportarsi.
Quando un padre di religione islamica, immigrato in Italia, ammazza la figlia o la picchia; quando un marito di religione islamica, immigrato in Italia, picchia la moglie, i mass media puntano subito ad un movente di tipo “etnico”, di tipo “culturale”. Lasciano pensare al lettore che è la religione, la loro appartenenza religiosa e/o etnica, la causa di tanta violenza sulle donne. A nessuno viene in mente che vi potrebbero essere motivazioni personali, interne al gruppo familiare, alla base del conflitto degenerato in tragedia: motivazioni che certamente risentono dell’influsso culturale e ambientale – come accade a tutti noi – ma che vanno ben oltre quell’influsso. Potremmo pensare che l’aspetto religioso e culturale sono il pretesto per lo sfogo di una violenza che ha precise responsabilità personali. Ecco allora che dietro un apparente conflitto “religioso” e “culturale” vi potrebbe essere un conflitto generazionale padre/figlia, un conflitto che ha radici nella psiche e nei vissuti del padre, incapace di gestire il cambiamento di una figlia che non riconosce più.
Osserva Portera nel suo “Tesori sommersi” (FrancoAngeli, 2001) che la migrazione comporta una certa dose di stress: sia per l’adulto che emigra che per il figlio o la figlia, oltre che per la moglie. Senza voler banalizzare, possiamo verificare sulla nostra pelle quanto sia stressante un semplice “trasloco” o l’inserimento di un differente ambiente lavorativo; per non dire dell’altissimo livello di tensione e di ansia che genera la precarizzazione dei lavori, specie quando si è superata la fase giovanile dell’esistenza.
Il migrare certamente determina una ridefinizione dei ruoli nell’ambito familiare e il contatto di una giovane donna (moglie, fidanzata o figlia che sia) con la nuova società porta di sicuro a rimettere in discussione gerarchie, relazioni, rapporti. Ma proprio questo rende ancor più remota – quando non ridicola, se non fosse per la tragicità degli eventi in cui si colloca – l’ipotesi di un “mandante religioso o culturale” dietro azioni delittuose che sono frutto di una devianza e di una criminalità agita spesso per ragioni molto personali. Perché, secondo l’approccio pedagogico-interculturale, se è alla persona che vanno ricondotte le possibilità di riscatto, di accoglienza, di dialogo; è alla persona stessa che vanno imputate le azioni illegali e violente.
Verona, 6 maggio 2007

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