MILANO A MANO ARMATA: LA “RIVOLTA CINESE”

a cura di Maurizio Corte - Verona, aprile 2007 
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Chi ha più di quarant’anni ricorda di certo i film degli anni settanta che facevano cassetta puntando sulla criminalità. Allora non vi erano gli “extracomunitari”. La criminalità rappresentata da quei film era un mostro indefinibile; oppure aveva i connotati della delinquenza “meridionale” (i siciliani, i calabresi). I titoli dei film erano fortemente “patemici”, per usare un termine impiegato dagli studiosi di semiotica (si veda Lorusso-Violi, Semiotica del testo giornalistico, Laterza editore): “La polizia sta a guardare”, che con Enrico Maria Salerno diede inizio alla serie poliziesca, “Napoli violenta”, “Milano a mano armata”, “Italia a mano armata”, “Paura in città”, “Roma violenta”. Molti di quei film di second’ordine avevano come protagonista l’attore Maurizio Merli che bene interpretava la “solitudine” del commissario di polizia con le “mani legate”: la polizia arrestava, la magistratura assolveva.
Quei film erano espressione di un’Italia che stava cambiando. I toni erano esasperati. La sensazione di insicurezza era incombente. Per chi viveva nelle città “violente” – ricordo a questo proposito un’estate a Genova, città a cui mi legano molti ricordi – sa che il “materiale umano” e le storie di criminalità a cui attingere c’erano, eccome. Il nemico non era identificato, però, con qualcuno al di fuori della comunità: non vi era, come oggi, il cosiddetto “extracomunitario”.
Il pericolo era dentro, come un “cancro sociale” da estirpare, ma verso il quale i “medici” (la polizia) poco potevano, imbrigliati com’erano da leggi garantiste, da un sistema politico presentato sotto l’insegna della codardia e da una magistratura considerata insensibile all’illegalità e al pericolo. Il richiamo, allora come oggi, era all’ordine, al bisogno di sicurezza, al ripristino delle regole. A qualunque costo. Il messaggio arrivava alla gente, agli spettatori indifesi e se da un lato ne interpretava le ansie di un’Italia che mutava, dall’altro ne alimentava le paure, le angosce, i tristi presagi. Di quegli anni, restando a Genova, è l’oscuro rapimento e omicidio della giovine Milena Sutter e la criminalizzazione, l’arresto e il carcere senza espiazione di Lorenzo Bozano, il “biondino della spider rossa”, come venne etichettato subito dalla stampa. L’Italia si divise in innocentisti (fra cui chi scrive) e colpevolisti. Non vi era del resto partita: da un lato un giovane spiantato, dall’altro la figlia di un potentissimo industriale.
Oggi il copione si ripete di fronte alla criminalità che parla straniero. La “rivolta cinese” – in un contesto e con modalità che meritano un’osservazione a parte –
ci ricorda quegli anni. La rappresentazione dell’illegalità si sostanzia ancora di espressioni che inducono insicurezza, paura, senso dell’accerchiamento. Questa volta, però, il “nemico” c’è, è bene individuato: lo straniero, il diverso.
Nel caso della “rivolta cinese”, assistiamo tuttavia a qualche cosa di differente, all’introduzione di un elemento che fa riflettere. I mass media hanno sottolineato la “novità” di una comunità silenziosa che ad un certo punto si è fatta sentire a voce alta e a gesti eclatanti, rivoltandosi contro la polizia come accade di frequente in alcuni quartieri di Napoli. I media hanno stigmatizzato le tensioni provocate dalla presenza di cittadini cinesi concentrati in una certa area e impegnati in affari che corrono a volte sul labile confine fra lecito e illecito. Dall’altro lato, sono stati costretti a dare voce alla protesta: la comunità cinese ha fatto intervenire il console che ha sede a Milano e addirittura il governo della Cina, attraverso il ministero degli Esteri.
Gli “stranieri che non hanno voce” sono riusciti a parlare e a far valere le loro ragioni – condivisibili o meno, questo è un altro discorso – grazie alla forza di pressione economica e politica che sono riusciti a mettere in campo. I giornali più schierati contro l’immigrazione e i problemi che essa comporta hanno sottolineato in senso negativo questa “prepotenza” dei cittadini cinesi; da parte nostra non possiamo che prendere atto di come le comunità straniere in Italia, se organizzate, possano far sentire sui media la loro voce.
Non si tratta, si badi bene, di giustificare atti di illegalità. Assolutamente. Come ricorda Portera (si veda Tesori sommersi, edito da FrancoAngeli), l’educazione interculturale è anche educazione alla legalità e al rispetto delle regole. L’approccio pedagogico-interculturale si basa sul rispetto della persona e dei suoi valori fondamentali, dei suoi diritti e dei suoi doveri verso la comunità. Non vi è giustificazione alcuna, neppure di tipo “culturale”, all’illegalità, alla criminalità, all’evasione fiscale, ai moti di piazza.
Quello che è interessante rilevare è come i cittadini stranieri possano entrare nell’agenda dei media non solo come vittime di delitti, come autori di reati, come capri espiatori di situazioni di insicurezza e di allarme sociale, ma anche come soggetti portatori di una loro visione dei fatti e degli avvenimenti. La comunicazione, forte anche dell’appoggio del Paese di provenienza, diventa allora lo strumento per ricordare ai giornali che non vi è solo una visione dei fatti, ma più versioni; e che l’immigrazione ha voce e dignità d’espressione.


Verona, 22 aprile 2007

 

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