DIVERSITA' FA RIMA CON CRIMINALITA': L'INFORMAZIONE GIORNALISTICA TRA FRUSTRAZIONI PERSONALI, STRUMENTALIZZAZIONI POLITICHE E "AFFARI"

a cura di Maurizio Corte - Verona, 30 gennaio 2006 
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La stampa italiana – le ripetute ricerche in proposito lo dimostrano – è sovente impreparata a rappresentare e ad interpretare una realtà pluralistica, multietnica, multiculturale e complessa come quella italiana degli ultimi 15 anni. Il “caso di Erba”, con il cittadino tunisino Azouz Marzouk considerato un killer sterminatore solo perché di religione islamica e “nordafricano”, è solo una spia di quella miopia ed incapacità dei media.
Del resto, come dimostra anche la ricerca di M. Buonanno sull’identità incerta dei giornalisti italiani (in Sorrentino C., Il giornalismo in Italia, Carocci, 2003), la professionalità degli operatori dell’informazione è caratterizzata spesso da bassi titoli di studio (solo il 50% è laureato), da carenze nell’aggiornamento professionale, da figure professionalmente non definite che vengono sottopagate e utilizzate sui più svariati temi come se dovessero avere una conoscenza enciclopedica di temi e situazioni (i cosiddetti “freelance” che lavorano senza contratto e spesso non arrivano a mille euro al mese).
La politica degli editori - lo sanno bene i giornalisti impegnati come sono per il rinnovo del contratto di lavoro e per dare un contratto dignitoso ai freelance - è chiara: a loro interessa un giornalismo non di qualità, ma che sia piegato agli affari della pubblicità.
Nelle redazioni, noi giornalisti professionisti coperti da contratto ci ripetiamo spesso che siamo impiegati solo per coprire gli spazi lasciati liberi dalle inserzioni pubblicitarie. Della qualità del nostro lavoro a direttori e amministratori delegati poco interessa. Anzi, nulla. Non interessa la nostra storia professionale. Non interessa la nostra preparazione culturale. Non interessiamo come “persone”, dotate di intelligenza e cuore.
La fine del giornalismo “pedagogico” e l’avvento di un’informazione asservita alle logiche commerciali – di cui trattano i testi di “sociologia del giornalismo” di Carlo Sorrentino – hanno prodotto un sistema dei mass media dove i conti delle imprese editoriali condizionano e piegano la logica delle redazioni ai propri interessi. Ai propri affari.
Non vogliamo mettere in discussione il “libero mercato”; e non abbiamo nostalgia dei tempi in cui la politica e il potere dei vertici istituzionali condizionava addirittura l’assunzione dei singoli giornalisti. Un giornale che raccoglie pubblicità, un’impresa editoriale che ha i conti in regola e magari è in attivo, una televisione che si autofinanzia grazie agli inserzionisti e non con i favori di questo o quel potentato politico: tutte queste
realtà imprenditoriali sono una ricchezza per i rispettivi azionisti, per i giornalisti che possono lavorare ed essere pagati in modo dignitoso, per i lettori/spettatori che avranno un’informazione meno condizionata dai potentucoli dei partiti e delle lobby politiche.
Il problema sorge quando le imprese editoriali - con i conti in ordine grazie a quella fonte di reddito e di ricchezza che è la pubblicità – scelgono di avere direttori e vertici delle redazioni asservite alla “logica dell’oggi”, ad un’informazione schiacciata sul sensazionalismo e sulla drammatizzazione, ad giornalismo che sconfina con il fare spettacolo e che talvolta allo spettacolo si mescola (l’infotainment: informazione più intrattenimento). Abbiamo, così, un notiziario giornalistico che “diverte” i lettori, che ne solletica le più basse tentazioni, che favorisce lo sfogo degli istinti peggiori, che ne obnubila la coscienza critica.
Sia chiaro: il lettore non è sprovveduto come gli editori e quei giornalisti asserviti (direttori, capiredattori, capiservizio, redattori rampanti) credono. La “dieta mediale” del pubblico è varia. Chi usa Internet cerca, frequenta, ascolta di certo voci e versioni alternative, comunque critiche rispetto ai notiziari di certi quotidiani, radio, televisioni e siti Web. Il lettore non è sprovveduto, ma molto spesso è condizionato – specie là dove non ha fonti alternative (si pensi agli anziani che usano pochissimo Internet) – da un’informazione asservita alle logiche commerciali.
Questo modo di fare giornalismo – frutto di carenze culturali, malafede politica, asservimento agli “affari” delle imprese editoriali – sconta un’impreparazione degli operatori dell’informazione, condizionati dagli editori e da un’agenda delle notizie pilotata verso la superficialità e la drammatizzazione; e sconta una grave carenza sul piano del “cuore”, dei sentimenti personali, del rispetto dell’Altro, oseremmo dire dell’amore verso il prossimo. La fine di un giornalismo “pedagogico” di serie B – con la Rai emblema dell’informazione e dello spettacolo che “educa” – ha portato ad un “sociologismo da strada” di giornalisti che, senza alcuna preparazione, sono convinti di saper leggere e rappresentare l’Italia multiculturale e complessa dei nostri giorni. La rinuncia ad una “Pedagogia alta”, alla Pedagogia vera, alla sua utopia sostanziata di lavoro e di studio che sappiano indagare, interpretare, rappresentare una società multietnica e globalizzata, ha prodotto giornalisti dimezzati sul piano degli strumenti professionali.
L’informazione è dimezzata, però, anche da interessi politici e da frustrazioni personali. Non dobbiamo infatti dimenticare che sul tema dell’immigrazione si gioca una battaglia politica e di potere: i migranti sono tirati – da Destra e da Sinistra – e strumentalizzati per scontri fra schieramenti, per carpire consensi elettorali, per intercettare malcontento popolare, lasciando nel silenzio i grandi affari della grande criminalità.
Fa allora notizia l’accoltellamento a morte, il 20 gennaio 2007, del tabaccaio in centro storico a Verona – che molti di noi veronesi conoscevano e frequentavano – come spia dell’insicurezza della città, della presenza inquietante di “balordi” e del clima di paura palpabile dei commercianti che sono a contatto con l’emarginazione e con i suoi effetti (scippi, molestie, degrado, droga). Nulla di inventato, sia chiaro. Peccato che non si alzi lo sguardo all’insidiosa criminalità dell’usura, del racket, del pizzo; quella che “ripulisce” i denari sporchi di sangue e sudore degli innocenti in lindi e sfarzosi negozi spuntati all’improvviso e all’improvviso scomparsi, quella che parla anche il linguaggio straniero di “califfi cui non darei una lira” (per dirla con il cantautore Francesco Guccini) i quali viaggiano in business class e fanno affari con persone rispettabili (e non) della criminalità italiana e del mondo delle professioni, della finanza, dell’economia.
Peccato che non si alzi lo sguardo sull’evasione fiscale, per cui se tu compri una casa in costruzione che costa 200.000 euro, devi darne il 25-30% in nero. Un fenomeno che anche poliziotti, Guardia di Finanza, carabinieri ben conoscono, perché anche loro comprano casa. Cosa c’entra l’evasione fiscale con l’uccisione di questo o quel commerciante, o con lo scippo ai danni di una donna anziana? C’entra per i giri tortuosi che il denaro può compiere; perché la microcriminalità non è solo figlia di situazioni umane e sociali ma è anche il terminale della grande criminalità. L’evasione fiscale c’entra anche per un particolare banale: con i soldi sottratti al fisco (oltre 200 miliardi di euro l’anno) si potrebbe investire in sicurezza, in personale di polizia altamente qualificato, in poliziotti di prossimità e in carabinieri di quartiere. Senza contare gli investimenti che potrebbero essere fatti in servizi sociali: in mediatori interculturali, ad esempio, e/o in centri di aggregazione.
Il giornalismo italiano – con la splendida eccezione del “Sole 24 Ore”, giornale degli industriali, che conduce inchieste anche sul lato “sporco” degli affari e dell’economia mondiale – non alza lo sguardo su tutto questo. Si limita a fare dell’allarmismo con un giornalismo di corto respiro.
Si chiude spesso nelle frustrazioni personali di singoli giornalisti che per ambizioni di carriera, forse per soldi, a volte per interessi politici di bassa lega, certo per impreparazione culturale e per freddezza umana e di sentimenti, sbattono il “marocchino killer” di Erba nella prima pagina dei condannati senza processo e criminalizzano la diversità, anziché capirla e spiegarla. Asservìti all’agenda e al linguaggio delle “fonti ufficiali”, quei giornalisti rinunciano al ruolo nobile e affascinante che è proprio del giornalismo: quello della “mediazione” fra la realtà e le fonti da un lato, e i lettori dall’altro. Una mediazione che è anche senso critico, indipendenza di giudizio, capacità di analisi e cultura.


Verona, 30 gennaio 2007

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