I PIRATI DELLA STRADA? SE SONO “ROMENI” SONO PIU’ PIRATI

a cura di Maurizio Corte - Verona, 27 aprile 2006
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“Guidavano contromano ubriachi / Morta una coppia di motociclisti. Verona, fermati due romeni. Il test ha stabilito che avevano bevuto troppo. Le vittime avevano 23 anni”. Sabato 22 aprile 2006 il sito Web di Repubblica.it ha titolato così la notizia di un grave incidente stradale accaduto a Verona, nel pomeriggio di quel giorno, in viale Piave, l’ampia strada a molte corsie che porta dal centro città alla Fiera. Andando verso il sottopasso, una coppia di fidanzati su una moto, si sono trovati di fronte l’auto che andava contromano. L’impatto è stato violentissimo e i due giovani sono morti sul colpo.
L’incidente ha riportato all’attenzione il gravissimo fenomeno della guida in stato di ebbrezza, una delle maggiori cause di disgrazie sulla strada. L’alcol, come gli stupefacenti, allenta i freni inibitori e la lucidità alla guida, con le conseguenze dell’alta velocità e della guida pericolosa: ne sa qualcosa Treviso, la provincia con un altissimo tasso di incidenti e teatro di tante “stragi del sabato sera” dove muoiono molti giovani.
Le polemiche che l’incidente ha scatenato sono state innescate soprattutto dal fatto che il guidatore e il passeggero dell’auto erano, oltre che molto ubriachi, anche “molto stranieri”. Nel resoconto dell’incidente, i giornali hanno ricordato che - sempre a Verona - solo un paio di settimane prima, ad un paio di chilometri di distanza, altri due motociclisti avevano perso la vita scontrandosi con una Mercedes che stava facendo un’inversione a U in un sottopasso. Una Mercedes guidata da un cittadino macedone; un altro straniero insomma. Il Veneto, terra di alpini di vino e di alcolismo, si è scandalizzato di fronte ad una tragedia della strada causata dall’alcol. Alcuni soccorritori della coppia uccisa a Verona, in viale Piave, hanno cercato di assalire i due cittadini romeni. Viene da chiedersi se un’analoga reazione sarebbe accaduta di fronte a guidatori ubriachi italiani.
Proviamo a costruire una scena di convivialità articolata in due quadri. Il primo quadro rappresenta un gruppo di alpini, che bevono e cantano con il cappello in testa e la simpatia propria delle “gente veneta”: accanto alla “farmacia alpina” (un carretto colmo di damigiane e bottiglioni di vino) sono espressione delle “nostre radici”, della “nostra cultura”, della “nostra identità”. Il secondo quadro rappresenta un gruppo di uomini dell’Est, che devono birra, sghignazzano, scherzano fra loro: quale impressione, quali pensieri suscitano? Sono allo stesso livello degli alpini, con la differenza che bevono birra anziché vino, o non richiamano piuttosto una situazione di degrado e di pericolo? Perché l’alpino ad alto tasso alcolico suscita simpatia e il romeno con un altrettanto alto tasso alcolico suscita sospetto?
Nella terra dell’alcolismo, sono i guidatori stranieri ubriachi a destare l’allarme della stampa e a portare i media a denunciarne la pericolosità. Non v’è dubbio che, accertate le responsabilità, l’autista ubriaco di nazionalità romena che ha causato l’incidente è un criminale e un omicida. Lascia perplessi il fatto che gli omicidi sulla strada siano più omicidi quando sono commessi da cittadini stranieri (ubriachi e non) rispetto a quando l’autore è un guidatore italiano. Un grave fenomeno, qual è quello della mortalità sulla strada, viene strumentalizzato per denunciare il rischio che il “diverso” rappresenta. Anche in questo caso, un incidente è più “notiziabile” - merita uno spazio maggiore - se vi sono cause imputabili a guidatori di origine straniera. Non è un caso, infatti, se si è parlato di “due romeni ubriachi”, come se il passeggero che è in stato di ebbrezza avesse qualche responsabilità nell’incidente causato dall’autista: l’idea che si è rappresentata - con scelta consapevole o meno - è stata quella del “gruppo di romeni ubriachi”, dell’ubriacatura e dell’abuso dell’alcol come caratteristica del “gruppo straniero”.
Qual è il motivo di questa scelta editoriale? Le ragioni, che ho richiamato in parte in un altro degli appunti di Giornalismo interculturale, sono due: lo “straniero” fa più notizia solo per il fatto di essere estraneo, differente, fuori della nostra comunità (“extracomunitario”, appunto); dietro l’ampio spazio dato all’incidente (come anche al delitto) causato da una persona straniera vi è la poi presunzione tutta giornalistica di dare una lettura della società, di fornire al pubblico una chiave interpretativa del fenomeno. E’ come se il giornalista dicesse: “Dietro questo incidente vi è il fenomeno sociale preoccupante degli stranieri che non sanno guidare. Dietro questo incidente vi sono gli stranieri che non hanno nulla da perdere nel commettere le peggiori nefandezze perché non sono dei nostri e non hanno a cuore la nostra comunità e la convivenza civile”.
Il caso dei due automobilisti “romeni ubriachi” ricorda la vicenda del cittadino di origine albanese Bita Panajot, classe 1975, che nell’agosto del 1999 uccise con l’auto un bambino di 9 anni alla periferia di Roma e scappò senza prestare soccorso. Un anno dopo venne trovato con ben tre patenti false. Un “pirata della strada” in piena regola, Bita Panajot, che fece girare il circo mediatico - radio, stampa, tv, siti Web - per la sua azione criminale ai danni di un bambino.
Nello stesso periodo, secondo la testimonianza che mi venne data da un esponente dell’associazione delle vittime degli incidenti stradali, un altro pirata della strada - italiano e di classe sociale medio-alta - ne combinò una delle sue. Nel centro di una città veneta, sfrecciando a 150 l’ora, travolse e uccise una ragazzina. Era al suo secondo omicidio sulla strada. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Quell’uomo giovane e distinto correva così tanto perché doveva andare a giocare a tennis. Raccontano i testimoni che durante i rilievi della polizia stradale sulla dinamica dell’incidente, l’automobilista “veneto pirata della strada” così si espresse in una telefonata dal suo cellulare: “Ragazzi, scusatemi se non vengo alla partita di tennis. Ma ho avuto una rottura di coglioni qui sulla strada”. La “rottura” erano stati l’investimento e la morte di quella ragazzina. Mi hanno raccontato che il padre della giovine voleva mettergli le mani addosso. Di tutto questo vi è giunta notizia attraverso la grancassa dei media? No. La ragione è semplice: per i media un criminale pirata della strada veneto è meno criminale, e meno pirata, di un pari grado albanese.

Verona, 26 aprile 2006

 

 

I PIRATI DELLA STRADA? SE SONO “ITALIANI” LA RESPONSABILITA’ E’ DI TUTTI

a cura di Maurizio Corte - Verona, 1° maggio 2006
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Nella notte fra il 29 e il 30 aprile 2006 un automobilista travolge e uccide un carabiniere a Sommacampagna (Verona). Sono le 3 del mattino e il carabiniere, Ciro De Vita - 43 anni, una moglie e due figli - ad un posto di blocco sta controllando la patente di un automobilista quando viene investivo e ucciso sul colpo da un’auto guidata da un giovane che, si scoprirà poi, è ubriaco. L’essere ubriaco - come l’essere sotto l’effetto di droghe - non è un’attenuante, quando si commette un crimine; e l’investitore del militare, se i fatti sono andati come è stato riferito dai carabinieri, è un omicida.
L’incidente addolora come tutti gli incidenti in cui si perde una vita umana. Ma in questo caso addolora in modo ancor più profondo per una serie di ragioni: a morire è un uomo dello Stato che alle 3 del mattino è al lavoro per aiutarci a vivere in sicurezza, come testimonia il duro impegno quotidiano di carabinieri e poliziotti e finanzieri; a morire è ancora una volta un carabiniere e la morte viene dopo poche ore il sacrificio di Nassiriya dove, in spregio alla Costituzione, l’Italia è presente fra le forze militari che hanno fatto una guerra e paga, con le vite di italiani militari, quella che vorrebbe essere un’operazione di pacificazione ma che si presenta agli occhi delle fazioni irachene come un’occupazione.
Ma torniamo all’incidente di Verona. L’investitore è un veronese di 24 anni: ha ammazzato il carabiniere in un modo ancor più assurdo - se mai fosse possibile - dei due “romeni ubriachi” che pochi giorni prima hanno investito e ucciso, guidando contromano, una coppia di fidanzati, in viale Piave, poco prima della Fiera.
Come si sono comportati i mass media, soprattutto locali, di fronte a quest’altro incidente? Hanno inchiodato alle loro responsabilità il presunto omicida? No. Si è parlato di responsabilità collettiva, nel dare conto delle tragedie della strada provocate da “guidatori in stato di ebbrezza” (ubriachi fradici, sarebbe meglio dire). Si è parlato di tremenda e terribile “coincidenza” visto il tributo di vittime che l’Arma dei Carabinieri sta dando alla comunità nazionale (in Italia come in Iraq). Giornali e tv chiamano poi in causa - ed è giusto - gli effetti nefasti dell’abuso di alcol.
Cosa vi è di diverso, nella presentazione dell’incidente di Sommacampagna, rispetto all’incidente di viale Piave, in cui gli omicidi (uno in verità: il guidatore) erano stranieri, “romeni”? La diversità è, ancora una volta, nel fatto che l’autore del delitto è “uno di noi”. Se il guidatore ubriaco che uccide, il violentatore che abusa di una ragazza, il rapinatore che assalta una villa sono “stranieri”, “extracomunitari” (fuori della comunità), i mass media evocano il bisogno di sicurezza degli appartenenti alla comunità e criminalizzano in modo subdolo o manifesto il “diverso”: lanciano l’allarme e richiamano il bisogno di ordine. Esorcizzano il crimine facendo credere ai lettori e ai telespettatori che la devianza è fuori di noi; che il giardino incantato delle nostre città del “mitico Nordest” sarebbe un’isola felice se non vi fossero gli “stranieri”, i “romeni” (o i “marocchini”).
Quando invece il guidatore ubriaco che uccide (ma anche il violentatore o il rapinatore) è “uno dei nostri”, allora la responsabilità è collettiva, è di tutti. Tutti siamo chiamati - giornalisti beoni e alpini dal “goto” (= bicchiere di vino) facile - ad interrogarci, a fare ammenda dei nostri peccati, a confessarci e… come per ogni buona confessione, ad assolverci, dopo aver espiato la giusta pena.
Quest’atteggiamento dei mass media aiuta a comprendere la nostra società? Ci mette in grado di interpretarla e di orientarci? Non credo. Le “logiche della notiziabilità”, così etnocentriche (quando non razziste), ci presentano come dramma inevitabile il male commesso da “uno dei nostri” e come male da espellere quello commesso dal soggetto “straniero”. E’ proprio dei miopi vedere poco (con un raggio ristretto) e bene da vicino; ed è proprio dei miopi vedere molto male da lontano, quando si tratta di allargare il campo visuale e di leggere la società. E’ dalle miopie, mediatiche e non, che nascono le figure di (presunti) eroi e di (stranieri) criminali; ed è sempre dalle miopie che nascono i fraintendimenti, le menzogne, gli inganni di certa stampa.
I media - ed è questo uno degli aspetti più tristi - sono abili nel santificare gli eroi in divisa, di virtualizzare il loro sacrificio facendolo simbolo di valori e di ideali. Il problema è che gli stessi media che suonano l’inno nazionale per il carabiniere o il soldato eroe, ne dimenticano la memoria e i diritti quando lo Stato nega alla vedova e ai figli il giusto risarcimento. Quante volte leggiamo sui giornali, specie locali, dei casi di vedove e figli di militari o poliziotti morti al servizio dello Stato e dallo Stato stesso disconosciuti al momento di riconoscere danni e risarcimenti? Pochissime volte. Quasi mai. Se non entra nella retorica del “noi”, dei “nostri valori”, dei “nostri colori”, anche il soldato dimenticato e de-mitizzato diventa uno straniero, un “extracomunitario”. Non è più parte del “nostro gruppo”, non è più funzionale alle logiche dei media, alle loro “messe laiche”, ai loro inganni informativi.

Verona, 1 maggio 2006

 

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