IL PICCOLO TOMMASO E IL GRUPPO DEI “SICILIANI”

a cura di Maurizio Corte - Verona, 3 aprile 2006
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La vicenda, conclusa in modo tragico, del piccolo Tommaso Onofri, rapito a Casalbaroncolo (Parma) il 2 marzo 2006 e ritrovato l’1 aprile, ha portato ad un certo punto gli inquirenti a concentrare la loro attenzione su alcune persone di origine siciliana che vivono e lavorano da anni nel Parmense. Un’attenzione ben diretta, che ha condotto ai sequestratori e agli assassini del bimbo di soli 18 mesi. Anche nelle cronache sulla confessione di Mario Alessi, uno dei presunti assassini di Tommaso, e sulla sua ambigua figura si è insistito sul fatto che fosse un “siciliano”; così per Salvatore Raimondi, l’altro presunto sequestratore-assassino. Tanta è stata l’attenzione alla particolarità “siciliana” del gruppo di presunti criminali, che l’agenzia di informazioni Ansa ha diffuso sabato 1 aprile, poco dopo la notizia della morte di Tommaso Onofri (data intorno alle 20.15), questo dispaccio: “Provo disprezzo per questo individuo e sono certo che tutti gli abitanti di San Biagio Platani condividano i miei sentimenti. Sono le parole di Santo Sabella, sindaco di San Biagio Platani, paese dell’agrigentino di cui è originario Mario Alessi, l’uomo che ha confessato il sequestro e l’uccisione del piccolo Tommaso Onofri. “Lavoriamo per promuovere quanto di bello c’è nella nostra terra - ha aggiunto il sindaco - e le azioni di una persona simile finiscono per gettare un’ombra sulla nostra comunità”.
Vi è da chiedersi per quale motivo i mass media italiani abbiano insistito sulla “sicilianità” del gruppo di presunti sequestratori e assassini, quando ancora nulla si sapeva dei loro delitti. Quello che possiamo constatare è che nelle notizie legate al sequestro di Tommaso Onofri, il sostantivo “siciliani” si è ricaricato di una connotazione negativa che pensavamo fosse un reperto delle cronache di decenni fa. Un servizio dei telegiornali Rai, alla fine di marzo, ha sottolineato addirittura come la “comunità siciliana si sia bene inserita nel tessuto sociale della zona” dove è avvenuto il sequestro, quasi fosse un corpo estraneo. Un servizio di sabato 1 aprile, nel Tg2 della notte, curato da un giornalista dall’accento del Sud Italia, ha addirittura sottolineato il fatto che “Alessi ha dimostrato di non essere un uomo d’onore” e ha inveito con forza contro i due presunti assassini.
Il gruppo dei “siciliani a Parma” – al di là delle singole responsabilità delle persone coinvolte – è stato così rappresentato come qualcosa di “altro” dalla comunità parmense. L’uso dell’espressione “muratore siciliano” – riferita a Mario Alessi – ha indotto a pensare all’aggettivo “siciliano” come ad un particolare importante nella descrizione del personaggio. E’ proprio dei giornali, nell’applicare alle notizie la regola delle “5 W” (chi, quando, come, dove e perché), indicare il luogo di provenienza del protagonista di un fatto. Non vi è nulla di sbagliato in questo, anzi: è un’informazione al pari dell’età della persona citata. Il problema sta nella connotazione, nel significato aggiuntivo (evocato o esplicitato chiaramente) che l’origine, la nazionalità o la lingua di quel protagonista assumono nel contesto di un articolo di giornale o di un servizio televisivo.
Una volta specificato che quel muratore è nato in Sicilia, che alcune persone controllate sono di origine siciliana, perché insistere sul “gruppo dei siciliani”? Finché questo viene fatto dalle forze dell’ordine, fonte delle notizie per i giornalisti, possiamo considerarla ormai come una routine della comunicazione di polizia e carabinieri. I giornalisti, invece, hanno un ruolo di “mediazione” tra le fonti e il lettore; ed è un ruolo di mediazione e di filtro che deve esercitarsi anche sul linguaggio. Tant’è che una delle buone regole è quella di tradurre il resoconto dei fatti dal linguaggio “poliziese” ad un italiano corrente, piano e comprensibile.
Il sospetto è che la specificazione insistita sull’essere “siciliani” abbia voluto aumentare il valore e l’interesse della notizia e suggerire un’interpretazione dei fatti: i probabili colpevoli sono loro. Se sono in gruppo, se sono siciliane, le persone oggetto di indagine portano ad un riferimento diretto alla Sicilia del crimine, della mafia, delle azioni senza scrupoli. Si induce a credere che solo un “estraneo”, uno “straniero” – non inserito intimamente nel tessuto della comunità parmense – può macchiarsi di un terribile delitto qual è il rapimento di un bimbo, per giunta malato di epilessia, e dell’omicidio.
L’apparizione del gruppo dei “siciliani” ha portato in secondo piano le passioni pedopornografiche del papà del piccolo Tommaso: esse sono diventate un qualche cosa da rimuovere o un qualche cosa di poco notiziabile. Come accade nella violenza sessuale, l’azione delittuosa dell’estraneo è più appetibile – per i giornali e per i giornalisti – dell’azione delittuosa della persona conosciuta, familiare, inserita nella famiglia o nel gruppo di conoscenza. Quello che come giornalisti e comunicatori attenti all’approccio interculturale dobbiamo chiederci è: “Perché i media considerano l’azione criminale del muratore come frutto non della sua condizione personale, ma come qualcosa di collegato alle sue origini regionali?”. Nel presentare i possibili autori di un’azione criminale, giornali, radio e Tv tendono così a suggerire un’interpretazione del delitto collegandolo ad una presunta origine “etnica” o “culturale”. Chissà cosa sarebbe successo se anziché “siciliani” gli autori del delitto fossero stati “albanesi” o “marocchini”.
In ogni caso, ancora una volta, di fronte ad un caso complicato, si è scelta la comoda strada della caccia all’estraneo, della colpevolizzazione anticipata di chi è (od è considerato) fuori della comunità. Quasi come se Alessi e Raimondi fossero stati ispirati nelle azioni criminali di cui sono accusati più dall’essere “siciliani” che dall’essere due persone senza scrupoli e senza valori; e come se il delitto, la devianza, l’orrore dovessero essere comunque assegnati a chi è fuori del gruppo dei “nostri”, degli autoctoni.
In questo comportamento dei mass media italiani vi sono due “presunzioni” dei giornalisti, su cui avremo modo di riflettere ancora: la presunzione di saper leggere, interpretare e spiegare una realtà che si fa sempre più complessa; e la presunzione di saper comprendere che cosa interessa al lettore, quasi che lo “straniero criminale” dovesse intrigarlo in modo maggiore. In entrambi i casi, a mio avviso, vi è una sottovalutazione sia della complessità della realtà, e sia degli interessi veri di lettori e telespettatori.

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