IL “COGNATO MAROCCHINO”

a cura di Maurizio Corte - Verona, 3 aprile 2006
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Lunedì 27 marzo 2006, nella provincia di Catanzaro, a Caraffa, la famiglia Pane viene sterminata: padre, madre, figlia e figlio sono uccisi in una zona isolata, tra casolari disabitati. I delitti sono feroci: un colpo alla testa, un’esecuzione che richiama i delitti di mafia; e poi il nascondimento dei corpi, sfigurandone i volti, sotto tegole e pezzi di eternit. Chi è (o chi sono) i feroci assassini? Le indagini si concentrano subito sui familiari, tanto che qualche giorno dopo viene fermato un parente italiano della famiglia Pane, forse legato a gruppi satanici. Ma non è questa parte della vicenda che ci interessa.
L’interesse maggiore è l’apparizione, sulle agenzie di stampa, nella serata di martedì 28 marzo, della notizia che gli interrogatori si stringono attorno ad un “cognato marocchino” di Camillo Pane, il capofamiglia assassinato. L’uomo, il “cognato marocchino”, è in Italia da una dozzina d’anni, ma per una serie di ragioni – anche giudiziarie – non ha la carta di soggiorno e pur avendo sposato un’italiana non ha mai ottenuto la cittadinanza. Già questo fatto lascia perplessi: vi sono matrimoni di comodo per ottenere la cittadinanza e questo signore, invece, non è cittadino italiano.
Il fatto che il cognato sia “marocchino” attira l’attenzione dei giornali, tanto che l’aggettivo di nazionalità viene riportato da tutti i media. Il particolare che sia sospettato di aver sottomesso la moglie, che era sorella di Camillo Pane, accentua nell’immaginario dei giornalisti l’idea del marocchino-marito padrone, uomo interessato ad approfittare della situazione per arricchirsi, per puntare a chissà quale bottino o per far valere tornaconti economici. Ancora una volta, la “estraneità” della persona sospettata, il suo essere “straniero” accentua la notiziabilità di quest’aspetto della vicenda e le possibilità che sia l’assassino.
Va però rilevato che la figura del “cognato marocchino” tiene la scena solo per un giorno, o poco più. Sono gli inquirenti stessi a rendersi conto che quella “marocchina” non è la pista giusta. L’unica cosa che decidono di fare, infatti, è l’espulsione dell’uomo in quanto ha il permesso di soggiorno scaduto. Si batte allora un’altra pista, anche quella di interessante impatto mediatico: la pista del “satanismo”. Cosa vi è di più estraneo di una setta satanica in una comunità cristiana? E’ una pista che gli stessi inquirenti, però, percorrono con molti dubbi.
In questo caso, è chiara la dipendenza dei media dalla fonte delle notizie: la magistratura e le forze dell’ordine incaricate delle indagini. Sono gli inquirenti a poter toccare questo o quel tasto, a poter accreditare questa o quella versione dei fatti. Non avendo in Italia un giornalismo investigativo, è impossibile poter scoprire altri particolari e proporre altre versioni dei fatti. Un qualche cosa, però, i giornali e i giornalisti possono farlo: non accettare in modo supino quanto di confezionato offrono le “fonti”. Di fronte al timore di azzardare altre interpretazioni, rischiando di sbagliare, si cerca di sbagliare… nell’ufficialità. I giornali seguono le indagini (e ne riferiscono) secondo la partitura scritta dagli investigatori. Più che di fronte ad un giornalismo di cronaca nera, siamo di fronte ad una “comunicazione istituzionale” che – forte del potere delle fonti giudiziarie e di polizia – riesce spesso ad imporre agenda e contenuti ai media.

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