TOMMY: ALLA “FONTE SICILIANA” DEL DELITTO (PROVENZANO PERMETTENDO)

a cura di Maurizio Corte - Verona, 1° maggio 2006
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I genitori di Tommaso Onofri - il bambino di Casalbaroncolo (Parma) rapito e ucciso il marzo scorso - sono stati per qualche giorno in Sicilia, in occasione del ponte del primo maggio. Hanno partecipato ad una serie di manifestazioni a scopo benefico in memoria di Tommy, la cui storia ha commosso il mondo intero: malato di epilessia, rapito e subito ucciso, protagonista suo malgrado per quasi un mese di un sequestro “anomalo” e del circo mediatico che gli si è sviluppato attorno. La visita di Paola e Paolo Onofri ha però avuto anche un altro significato: affermare che loro non sono arrabbiati con la Sicilia, terra d’origine dei rapitori e dei (presunti) assassini di Tommaso. “La Sicilia non ha colpa. La colpa è semmai di una certa Sicilia”, ha dichiarato la mamma di Tommaso. Paola Onofri ha perso così l’occasione di mantenere un dignitoso silenzio sulle presunte “radici etnico-regionali” (la definizione è di chi scrive) del delitto. Più meditata, anche se scontata, l’osservazione di Paolo Onofri, il quale ha precisato in Sicilia vi è del buono e del cattivo come vi è a Parma.
In un altro appunto abbiamo già trattato del piccolo Tommy e dei “muratori siciliani” autori del suo rapimento e suoi presunti assassini. Qui vorremmo esprimere lo stupore di fronte all’atteggiamento di una terra, la Sicilia, che sin dai sospetti sui “muratori siciliani” - quali autori del rapimento - si è sentita in dovere di scusarsi nei confronti della comunità parmense, dei genitori di Tommaso e dell’Italia intera. Cosa c’entra la Sicilia con il sequestro e la morte di Tommy? Quale responsabilità hanno i “siciliani” che vivono in Sicilia del barbaro omicidio di quel bambino, vittima indifesa di una violenza ben più grande di lui?
I mass media hanno insistito, nella loro etichettatura del “diverso deviante”, sull’origine “siciliana” dei “muratori”. Hanno tanto associato il delitto alla sicilianità dei sequestratori e sospetti assassinii da costringere la comunità della Sicilia - dal presidente della Regione al sindaco del paese di provenienza del muratore Mario Alessi (44 anni, originario di San Biagio Platani, in provincia di Agrigento) - a chiedere scusa, ad organizzare fiaccolate, a presenziare ai funerali. I cittadini siciliani sono stati costretti, e l’hanno fatto volentieri con senso di colpa e di vergogna, a specificare: “Noi con quell’Alessi siciliano, rapitore e presunto assassino, non c’entriamo nulla”.
Perché Paola Onofri, la mamma di Tommy, proprio in terra di Sicilia ha parlato tuttavia di una “certa Sicilia” lasciando intendere che là vi sia una fucina di malviventi e assassini? Come mai è tornato a scattare il collegamento fra la responsabilità del “Mario Alessi singolo, persona” e la sua origine culturale e regionale? Dobbiamo pensare che la terra in cui Alessi è nato e l’ambiente in cui è vissuto abbiano influenzato il suo comportamento criminale, peraltro già dimostrato con una violenza carnale compiuta anni fa e mai punita abbastanza? Se la risposta a quest’ultimo interrogativo è positiva, dobbiamo temere che il fratello gemello di Mario Alessi, il quale vive a San Biagio Platani, sia un “soggetto a rischio”: stessa terra, stesso ambiente, stessa cultura, stessa famiglia e per giunta fratello gemello.
Così non è, per fortuna. Eppure i giornali, la radio, la Tv, i siti Web hanno lasciato pensare che vi possa essere una connessione fra il compiere un delitto e l’appartenere ad una comunità. E’ una convinzione che i giornalisti assumono dalle fonti di polizia: queste ultime sono portate a classificare i reati attribuendo loro una connotazione etnica, un’origine nazionale e culturale. Gli ex-jugoslavi sono specializzati in furti in appartamento; gli albanesi nella prostituzione; i nordafricani nello spaccio di stupefacenti; i nigeriani anche loro nella tratta delle donne da far prostituire; i sudamericani sono specializzati nei “furti con destrezza” (i borseggi, ad esempio). Ricordo che una dozzina di anni fa, frequentando per lavoro gli uffici dell’allora Pretura di Verona, mi fu insegnato che i “veronesi” erano specializzati nelle truffe. Un abile cronista di “nera” trent’anni fa mi spiegò invece che “alcune zone della provincia di Verona erano più vocate a certi tipi di assassinii”: non si riferiva alla situazione di degrado di certi ambienti che in tutte le latitudini favorisce la devianza e la violenza; insisteva invece sulla caratteristica etnico-culturale (egli non usò quei termini, ché non erano in voga a quel tempo) di alcuni territori veronesi.
Alla luce di tutto questo, proviamo ad immedesimarci, per un attimo, in Bernardo Provenzano, boss dei boss della mafia, catturato il 10 aprile 2006 dopo 43 anni di latitanza. Immaginiamolo mentre scrive, a macchina, uno dei suoi “pizzini”, quei bigliettini con cui da un casolare nella campagna di Corleone impartiva gli ordini. Chissà se avrebbe (o se avrà) mai scritto: “Non voglio XY nella nostra organizzazione. E’ un albanese: sarà bravo con la prostituzione, ma a riscuotere le tangenti per gli appalti ci vuole un milanese o un veneto, magari laureato o almeno diplomato. I milanesi e i veneti laureati e diplomati hanno la vocazione per le tangenti, come la storia di Tangentopoli dimostra”.
Credibile? No di certo. Pensarlo sarebbe stupido. Molto stupido. Equivale a pensare che il “boss dei boss” Bernardo Provenzano, appartenente al segno zodiacale dell’Acquario, abbia tratto la sua “capacità mafiosa” - e la forza barbara per i crimini che ha compiuto - dall’essere un “acquariano”. Come a dire che i nati sotto il segno dell’Acquario hanno più possibilità di diventare non solo mafiosi, ma capi mafia ai massimi livelli. Se fosse così, anche chi scrive, nato sotto il segno dell’Acquario, potrebbe pensare di guidare un giorno “Cosa Nostra”. Oppure si potrebbe credere che artisti come Mozart, Gaber, De André, Truffaut o uno scritto come come Jules Verne - tutti nati sotto il segno dell’Acquario - sono stati dei boss mafiosi mancati. Sarebbe un serio pensare? No di certo. Vi è da chiedersi, allora: perché dovrebbe essere seria l’ipotesi che la “sicilianità” di Mario Alessi c’entri con i suoi gesti criminali e la sua storia di persona violenta e sprezzante della vita di donne giovani e di bambini?

Verona, 1 maggio 2006

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