I PIRATI DELLA STRADA? SE SONO “ITALIANI” LA RESPONSABILITA’ E’ DI TUTTI

a cura di Maurizio Corte - Verona, 1° maggio 2006
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Nella notte fra il 29 e il 30 aprile 2006 un automobilista travolge e uccide un carabiniere a Sommacampagna (Verona). Sono le 3 del mattino e il carabiniere, Ciro De Vita - 43 anni, una moglie e due figli - ad un posto di blocco sta controllando la patente di un automobilista quando viene investivo e ucciso sul colpo da un’auto guidata da un giovane che, si scoprirà poi, è ubriaco. L’essere ubriaco - come l’essere sotto l’effetto di droghe - non è un’attenuante, quando si commette un crimine; e l’investitore del militare, se i fatti sono andati come è stato riferito dai carabinieri, è un omicida.
L’incidente addolora come tutti gli incidenti in cui si perde una vita umana. Ma in questo caso addolora in modo ancor più profondo per una serie di ragioni: a morire è un uomo dello Stato che alle 3 del mattino è al lavoro per aiutarci a vivere in sicurezza, come testimonia il duro impegno quotidiano di carabinieri e poliziotti e finanzieri; a morire è ancora una volta un carabiniere e la morte viene dopo poche ore il sacrificio di Nassiriya dove, in spregio alla Costituzione, l’Italia è presente fra le forze militari che hanno fatto una guerra e paga, con le vite di italiani militari, quella che vorrebbe essere un’operazione di pacificazione ma che si presenta agli occhi delle fazioni irachene come un’occupazione.
Ma torniamo all’incidente di Verona. L’investitore è un veronese di 24 anni: ha ammazzato il carabiniere in un modo ancor più assurdo - se mai fosse possibile - dei due “romeni ubriachi” che pochi giorni prima hanno investito e ucciso, guidando contromano, una coppia di fidanzati, in viale Piave, poco prima della Fiera.
Come si sono comportati i mass media, soprattutto locali, di fronte a quest’altro incidente? Hanno inchiodato alle loro responsabilità il presunto omicida? No. Si è parlato di responsabilità collettiva, nel dare conto delle tragedie della strada provocate da “guidatori in stato di ebbrezza” (ubriachi fradici, sarebbe meglio dire). Si è parlato di tremenda e terribile “coincidenza” visto il tributo di vittime che l’Arma dei Carabinieri sta dando alla comunità nazionale (in Italia come in Iraq). Giornali e tv chiamano poi in causa - ed è giusto - gli effetti nefasti dell’abuso di alcol.
Cosa vi è di diverso, nella presentazione dell’incidente di Sommacampagna, rispetto all’incidente di viale Piave, in cui gli omicidi (uno in verità: il guidatore) erano stranieri, “romeni”? La diversità è, ancora una volta, nel fatto che l’autore del delitto è “uno di noi”. Se il guidatore ubriaco che uccide, il violentatore che abusa di una ragazza, il rapinatore che assalta una villa sono “stranieri”, “extracomunitari” (fuori della comunità), i mass media evocano il bisogno di sicurezza degli appartenenti alla comunità e criminalizzano in modo subdolo o manifesto il “diverso”: lanciano l’allarme e richiamano il bisogno di ordine. Esorcizzano il crimine facendo credere ai lettori e ai telespettatori che la devianza è fuori di noi; che il giardino incantato delle nostre città del “mitico Nordest” sarebbe un’isola felice se non vi fossero gli “stranieri”, i “romeni” (o i “marocchini”).
Quando invece il guidatore ubriaco che uccide (ma anche il violentatore o il rapinatore) è “uno dei nostri”, allora la responsabilità è collettiva, è di tutti. Tutti siamo chiamati - giornalisti beoni e alpini dal “goto” (= bicchiere di vino) facile - ad interrogarci, a fare ammenda dei nostri peccati, a confessarci e… come per ogni buona confessione, ad assolverci, dopo aver espiato la giusta pena.
Quest’atteggiamento dei mass media aiuta a comprendere la nostra società? Ci mette in grado di interpretarla e di orientarci? Non credo. Le “logiche della notiziabilità”, così etnocentriche (quando non razziste), ci presentano come dramma inevitabile il male commesso da “uno dei nostri” e come male da espellere quello commesso dal soggetto “straniero”. E’ proprio dei miopi vedere poco (con un raggio ristretto) e bene da vicino; ed è proprio dei miopi vedere molto male da lontano, quando si tratta di allargare il campo visuale e di leggere la società. E’ dalle miopie, mediatiche e non, che nascono le figure di (presunti) eroi e di (stranieri) criminali; ed è sempre dalle miopie che nascono i fraintendimenti, le menzogne, gli inganni di certa stampa.
I media - ed è questo uno degli aspetti più tristi - sono abili nel santificare gli eroi in divisa, di virtualizzare il loro sacrificio facendolo simbolo di valori e di ideali. Il problema è che gli stessi media che suonano l’inno nazionale per il carabiniere o il soldato eroe, ne dimenticano la memoria e i diritti quando lo Stato nega alla vedova e ai figli il giusto risarcimento. Quante volte leggiamo sui giornali, specie locali, dei casi di vedove e figli di militari o poliziotti morti al servizio dello Stato e dallo Stato stesso disconosciuti al momento di riconoscere danni e risarcimenti? Pochissime volte. Quasi mai. Se non entra nella retorica del “noi”, dei “nostri valori”, dei “nostri colori”, anche il soldato dimenticato e de-mitizzato diventa uno straniero, un “extracomunitario”. Non è più parte del “nostro gruppo”, non è più funzionale alle logiche dei media, alle loro “messe laiche”, ai loro inganni informativi.

Verona, 1 maggio 2006

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