Integrazione e identità dei minori immigrati

Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali

 

Il minore immigrato, nato nel paese di accoglienza o qui giunto in tenera età, viene spesso descritto come sospeso tra due mondi e due culture seppure egli non abbia propriamente una condizione precedente da cui estraniarsi o allontanarsi. Il minore immigrato, tuttavia, può essere considerato come facente parte della cultura di origine, privilegiando il senso della continuità e il legame storico con il paese di provenienza dei genitori, oppure può essere assunto all’interno della cultura del paese ospite, privilegiando il momento presente e auspicando il buon esito di un processo che dovrebbe condurre alla definizione di una nuova appartenenza.

Sul piano giuridico, questa condizione di sospensione tra due mondi (geografici e culturali) trova una corrispondenza nell’orientamento normativo dei principali paesi europei in materia di conferimento dei diritti di cittadinanza. Infatti, in quest’ambito, il minore immigrato può essere considerato, in base allo jus sanguinis, come portatore - o "erede" - della cittadinanza del paese di provenienza dei propri genitori, oppure, in base allo jus soli, può essere assimilato alla cultura e alle leggi del paese dov’è nato. Ma anche laddove la concessione dei diritti di cittadinanza è più aperta - la Francia ne costituisce l’esempio forse paradigmatico - la normativa prevede che sia lasciata agli stessi minori (nati da genitori immigrati) la facoltà di scelta in merito alla cittadinanza da acquisire (una volta raggiunta la maggiore età). È qui che la normativa sembra voler rispettare la situazione di "fluidità" di questi soggetti, relativamente alla definizione del senso di appartenenza.

Sul piano socioculturale, il conferimento dei diritti di cittadinanza (quale che sia l’orientamento adottato nei vari paesi europei) può mitigare ma non risolvere la condizione di alterità del minore. Infatti, aldilà dell’accesso allo status giuridico di cittadino, altri ostacoli rischiano di compromettere la riuscita dell’integrazione nel paese ospite, per via del fatto che le differenze, somatiche e culturali, continuano spesso a essere percepite, sia a livello individuale, sia a livello generale, come segni di diversità. Ed esse possono trasformarsi in uno stigma sociale che rischia di accentuare il senso di sospensione tra due spazi e due tempi di riferimento. Afferma a questo proposito Veronique De Rudder: "l’accezione di immigrato è spesso vicina a quella di straniero poiché allude, allo stesso modo, a una esteriorità, cioè alla frontiera che distingue tra Noi e Loro. Globalmente, la nozione di immigrato allude a una posizione a parte nella nazione e nella società, a una precarietà che permane, almeno per due generazioni".

Il minore si trova dunque nella necessità di dover risolvere al più presto il complicato rapporto con il proprio passato e con il paese di origine, anche se è nato nel paese in cui si trova a vivere. È un cammino pieno di difficoltà che, come si diceva, comporta un insieme complesso e contraddittorio di problemi di ordine sociologico e psicologico: "La costruzione dell’identità etnica dei bambini e delle bambine straniere coinvolge soggetti che appartengono a mondi culturali ed etnici differenti. Ciò implica che, a differenza dei coetanei italiani, ai bambini stranieri o di origine straniera che vivono in Italia, non è concessa la possibilità di avere un’unica identità etnica, proprio perché comunque l’esperienza migratoria, sia diretta che indiretta (cioè esperita dai genitori) rappresenta per il minore un elemento di lacerazione identitaria".

Da un punto di vista terminologico, in presenza di un quadro così complesso, la definizione di "immigrato", nella classica accezione di "persona che si muove, in cerca di lavoro, da un paese a un altro", per molti versi non è applicabile né ai minori condotti dai propri genitori al loro seguito, né ai figli nati nel paese ospite. Per un altro verso, essa può invece essere pertinente in quanto allude a quelle difficoltà che si frappongono ai percorsi di integrazione e che sono comuni anche a categorie disomogenee di soggetti. Infatti, oggi appare chiaro come, oltre a interrogarsi sulla posizione dei minori rispetto all’immigrazione - intesa come spostamento e cambiamento di "luogo" geografico e culturale - sia necessario considerare il posto che essi occupano nella società ospite, ovvero nel paese di insediamento e di più o meno definitiva permanenza. Così, nel contesto francese - richiamato ancora una volta a titolo di esempio - di fronte ai rischi terminologici che limiterebbero la possibilità di comprendere la ricchezza e la complessa articolazione delle strategie di integrazione, sono state introdotte altre definizioni, tra le quali: immigrés de seconde génération (immigrati di seconda generazione) o enfants issus de l’immigration (minori di origine immigrata). Definizioni che vogliono inserire la problematica personale dei minori all’interno di un quadro di riferimento più ampio, nel quale siano inclusi anche le vicissitudini del ciclo migratorio e il rapporto con il paese di origine. Tali termini si riferiscono, senza distinzione, sia ai figli di immigrati che hanno raggiunto nella terra di immigrazione il genitore o i genitori, sia ai minori emigrati insieme ai parenti, sia, infine, a coloro che sono nati nel paese di accoglienza. Gli effetti psicologici e culturali del "viaggio" (inteso come spostamento, reale e metaforico, tra "luoghi" geograficamente e culturalmente differenti) continuano ad agire su questi soggetti, sia quando essi lo hanno sperimentato in prima persona, sia quando il viaggio è stato inizialmente intrapreso dalle generazioni precedenti. Basti pensare al fatto che si può parlare di "immigrati di terza generazione" i quali, seppur a distanza di più generazioni, avvertono ancora le conseguenze dei processi che l’immigrazione ha innescato.

I minori immigrati sono chiamati génération involontaire (generazione involontaria) da Tahar Ben Jelloun, che aggiunge: "una generazione destinata a incassare i colpi. Questi giovani non sono immigrati nella società, lo sono nella vita… Essi sono lì senza averlo voluto, senza aver nulla deciso e devono adattarsi alla situazione in cui i genitori sono logorati dal lavoro e dall’esilio, così come devono strappare i giorni a un avvenire indefinito, obbligati a inventarselo invece che viverlo". Una generazione involontaria che è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, nei paesi europei, rendendo il fenomeno di difficile gestione. La scuola, i servizi sociali, la giustizia sono solo alcune tra le istituzioni statali che quotidianamente si cimentano con i nuovi problemi che la crescita di una società sempre più multiculturale comporta. Una generazione involontaria che cresce congiuntamente alla problematicità di cui si fa espressione e che spesso si rende più concretamente percepibile e rilevabile attraverso manifestazioni quali: il ritardo scolastico, il disagio individuale e familiare, il maggior rischio di devianza sociale.

Per anni era rimasta consolidata la consuetudine di considerare l’immigrazione alla stregua di un evento di cui sono protagonisti soggetti adulti, per lo più soli, e non già gruppi familiari. Tranne rare eccezioni, il continente aveva conosciuto la cosiddetta "immigrazione da lavoro" piuttosto che la cosiddetta "immigrazione da popolamento". Anzi, le stesse rappresentazioni dell’emigrare e dell’immigrare apparivano, per molti versi, radicalmente antitetiche alla rappresentazione della famiglia. L’immigrato era prevalentemente un ospite temporaneo che aveva le proprie radici altrove, cioè nel luogo (geografico, sociale e culturale) col quale aspirava a ricongiungersi, una volta terminato il suo ciclo migratorio. In estrema sintesi e a dispetto del rischio di una facile schematizzazione, si potrebbe dire che i paesi europei interessati dall’immigrazione del dopoguerra abbiano percepito la presenza delle famiglie degli immigrati dopo la crisi petrolifera dei primi anni Settanta. Al tempo in cui le "politiche dello stop" non solo mancarono l’obiettivo che si erano proposte (cioè la limitazione dell’afflusso di manodopera immigrata, in base a un modello idraulico, che ne prevedeva il controllo mediante un’azione a "maniglia di rubinetto", svolta dagli incentivi o dalle misure restrittive) ma sortirono l’effetto opposto. Infatti, in quegli anni si assistette, in tutta Europa, al rapido incremento dei processi di sedentarizzazione dell’immigrazione.

Ovviamente, in tutti i fenomeni migratori si è da sempre riscontrata anche la partecipazione di soggetti minorenni. Tuttavia, quella sorta di sgomento che accompagnò la presa d’atto della presenza dei minori immigrati implicò anche una specifica riflessione teorica. Nel momento in cui un minore è coinvolto nel processo migratorio perché figlio di cittadini immigrati (sia egli ricongiunto al genitore precedentemente immigrato o nato nel paese d’approdo della famiglia) l’immigrazione perde quel suo carattere transitorio di pura immigrazione da lavoro e diviene qualcos’altro, o dovrebbe divenirlo. Da questo punto di vista, infatti, i figli degli immigrati non dovrebbero rientrare nella categoria sociologica dei migranti, poiché non hanno compiuto alcun percorso migratorio. Invece, proprio a partire da quegli anni, almeno in Europa, si è avuta la chiara evidenza che, ad esempio, un bambino nato in Francia da genitori di origine algerina non diviene automaticamente francese, nonostante il conferimento della cittadinanza e nonostante la politica di assimilazione culturale. Lo stesso vale per un minore di più o meno lontana origine pakistana o caraibica, che risieda nel Regno Unito. Come ricorda il titolo di un celebre scritto di Cornell West: "la razza conta", comunque si voglia declinare il significato del termine razza.

Fin dagli anni Settanta, in Europa è divenuto urgente mettere a punto strumenti concettuali per comprendere e descrivere la condizione di questi soggetti e si è posta la necessità di introdurre termini appropriati per darne una definizione. La questione ha assunto ancor maggiore rilevanza quando, nei successivi anni Ottanta, si è assistito a una serie di eventi (gli scontri di Birmingham, la violenza dei casseurs delle banlieues parigine, le rivolte dei giovani turchi in Germania) che hanno denunciato la crisi di tutti i modelli di integrazione fino ad allora messi in atto, che ha trovato la sua immagine speculare nell’inquietante ripresentarsi dei movimenti razzisti e xenofobi, verificatosi in quegli anni.

Come si diceva, la generazione di minori immigrati che Ben Jelloun definisce involontaria è notevolmente cresciuta, parallelamente alla problematicità di cui si è fatta espressione. È dunque giusto chiedersi quanto sia cresciuta e quale sia la sua attuale entità numerica. I minori immigrati e, soprattutto, i minori di origine immigrata, che continuamente nascono in tutti i paesi europei, sono sicuramente moltissimi, pur se il loro numero non è calcolabile con precisione. Basti pensare che, secondo alcune stime, se la Francia non avesse accolto le ondate migratorie a partire dalla prima guerra mondiale, conterebbe oggi una popolazione di circa 37 milioni di persone, invece delle circa 57 milioni effettive. Questo dato, mentre dà la misura dell’importante contributo apportato dall’immigrazione alla crescita del paese, fornisce anche una stima indiretta del gran numero di persone di origine immigrata presenti in uno solo degli stati dell’Europa occidentale. Ne deriva che, per rispondere esaurientemente alla domanda "quanti sono i minori immigrati in Europa?" sarebbe necessario rispondere prima a un’altra domanda: "quando si smette di essere persone di origine immigrata?". Cioè, fino a quando permangono quegli elementi che continuano a configurare come tale la génération involontaire? Oppure, ricordando ancora Cornell West: fino a quando, e in che misura, la razza conta?

Per la definizione del benessere del bambino occorre prendere in considerazione l’insieme dei fattori che ne favoriscono lo sviluppo fisico, psicologico, sociale, culturale. E in tal senso, certo non senza difficoltà, ci si sta muovendo. Non sono più sufficienti gli indicatori di base: il tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni, la percentuale di bambini malnutriti, la percentuale di bambini immunizzati e il numero dei bambini che hanno conseguito un livello di istruzione primaria (almeno cinque anni). Attestarsi su questi indicatori significherebbe rinunciare a politiche proattive e quindi a promuovere i diritti. Si è dunque giustamente sulla via di un allargamento della serie di indicatori di cui tener conto: "tra questi indicatori dovrebbero essere dunque inclusi rilevatori del benessere psicologico dei bambini, dei comportamenti a rischio, dell’uso del tempo, della qualità del supporto familiare, della speranza e fiducia nel futuro oppure della paura e ansia del futuro, della stabilità abitativa, della qualità dell’ambiente domestico e del microambiente sociale, della presenza di violenze nella vita del bambino o di minacce di violenza, dei crimini perpetrati da e contro i giovani, della possibilità di avere tempo libero e opportunità ricreative, della qualità di vita dei bambini disabili o affetti da patologie croniche, nonché alcuni rilevatori dell’esclusione sociale".

Che il benessere debba essere definito in modo da considerare una serie di fattori sempre più numerosi e non limitati ai "funzionamenti elementari" emerge da molteplici analisi. Scrive ad esempio Amartya Sen: "I funzionamenti rilevanti per il benessere variano da quelli più elementari, quali l’evitare gli stati di morbilità e di mortalità, essere adeguatamente nutriti, avere mobilità e così via, a numerosi altri funzionamenti più complessi, quali l’essere felici, raggiungere il rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità, apparire in pubblico senza provare un senso di vergogna".

Il benessere, come si vede, si configura come una gamma di condizioni di vita in grado di garantire stabilità ma anche di determinare una realizzazione delle potenzialità o, per usare la terminologia di Sen, delle "capacità". Ciò è ancor più vero per i bambini, che sono soggetti deboli e persone che si trovano in una fase particolarmente delicata dello sviluppo. D’altronde, nella United Nations Convention on the Rights of the Child del 1989, la tutela dei diritti del minore sembra essere sostenuta da una concezione che tiene conto dei più recenti studi sociologici e psicologici sui fattori che favoriscono il benessere e lo sviluppo del bambino. Tali studi sottolineano l’importanza della stabilità e sicurezza del contesto nel quale il bambino vive. In un contesto che risponda a queste caratteristiche, i bambini possono non solo sviluppare in pieno le loro capacità ma anche superare difficoltà e ostacoli, nonché usufruire delle opportunità che loro si presentano. Ma vi è un ulteriore dato che emerge dagli studi psicologici e che è stato raccolto dalla Convenzione: intendiamo riferirci al fatto che il bambino non può più essere considerato come un soggetto passivo. I bambini sono persone che entrano sin da subito in relazione, con il mondo e con gli altri, come soggetti attivi; ciò è sempre più ampiamente documentato da ricerche che stanno definitivamente distruggendo la vecchia concezione del bambino come "non ancora adulto" e quindi con capacità estremamente limitate. Considerare il bambino come persona e come soggetto attivo nelle relazioni significa anche porsi in una ben precisa prospettiva teorica e pratica. Significa che non soltanto, per il benessere del bambino, debbono essere garantite la sicurezza e la stabilità del contesto, ma che si deve tutelare e rispettare quella soggettività sia riconoscendola, sia promuovendo interventi atti a proteggerla e a permetterle di svilupparsi.

Il benessere è una condizione soggettiva che non sempre ha una correlazione diretta con le condizioni materiali e sociali cui il soggetto ha accesso. Sicuramente esistono persone che conoscono gradi di benessere nonostante vivano in ambienti estremamente disagiati: si può "star bene" in condizioni generali di malessere sociale, pur se ciò può apparire per molti versi assurdo. Del resto, può anche verificarsi il contrario. Lo sforzo che impegna le scienze sociali non consiste dunque nel descrivere direttamente il benessere, ma nel fornire una definizione accettabile delle pre-condizioni che a esso sono associabili, anche statisticamente. In altri termini: le condizioni psicologiche e sociali che, aldilà della percezione soggettiva dei singoli individui, consentono e promuovono il raggiungimento del benessere, oppure, venendo a mancare, lo ostacolano. Condizioni, inoltre, che possono essere ritenute universali, valide per tutti gli esseri umani. Valide per tutti i minori, a dispetto di ogni rischio di etnocentrismo, indipendentemente dal contesto sociale e dalla cultura di origine.

Assunta come punto di riferimento, la Convenzione del 1989 fornisce dunque lo schema concettuale applicabile anche ai fini di una lettura della condizione dei minori oggetto del nostro studio. Il termine "minore di origine immigrata" o "immigrato di seconda generazione" non è esplicitamente citato negli articoli della Convenzione. Tuttavia, sono molti i riferimenti alla condizione di questi soggetti. L’art. 20, ad esempio, parla del "background etnico, religioso, culturale e linguistico del bambino" e così pure l’art. 30 si riferisce al "bambino, sia esso appartenente a una minoranza (etnica, religiosa o linguistica) oppure autoctono". In ciò la stessa Convenzione sembra riconoscere che per il minore immigrato e per il minore appartenente a minoranze etniche sussista la medesima e specifica condizione di rischio per il benessere. Entrambe queste figure, infatti, sono caratterizzate dallo stesso status psicologico e sociologico di "semi alterità". D’altra parte, anche le parole di Veronique De Rudder già segnalavano che: "Globalmente, la nozione di immigrato allude a una posizione a parte nella nazione e nella società, a una precarietà che permane, almeno per due generazioni". E proprio quel comune status di "semi alterità" iscrive il segno della precarietà nella condizione che questi minori condividono e che ne pregiudica l’accesso al pieno benessere, per come esso è stato descritto nel capitolo precedente.

È ovvio che tutti i minori esperiscono la precarietà. Le dichiarazioni di intenti formulate dalle carte internazionali offrono una testimonianza di quanto gli sforzi volti a promuovere il benessere del minore convergano, da sempre, nell’impegno di garantirgli la maggiore stabilità e sicurezza possibile, sin da quando è sorto, o si è affermato, quel sentimento dell’infanzia e il relativo interesse culturale per le sue condizioni di benessere o di malessere. E la disamina delle condizioni di benessere e sviluppo del minore, ha ribadito come lo stesso concetto di benessere, fatto proprio dai documenti internazionali, che riassumono, a loro volta, gli apporti provenienti da una consolidata tradizione di studi e ricerche in ambito antropologico, sociologico e psicologico, si sia progressivamente costruito attorno a una nozione che può essere così riassunta: il senso di precarietà è un’esperienza spiacevole e dannosa e che dunque produce malessere. I bambini degli immigrati, oltre a questa condizione di precarietà, che potremmo quasi definire "ontologica" e che è comune a tutti i minori, sperimentano una condizione di precarietà più intensa e, soprattutto, più specifica. Una condizione che, come si diceva, è riconducibile al loro status sociale e psicologico di "semi alterità", uno status che espone alla maggiore probabilità di vivere in un contesto instabile e inospitale e che espone alla maggiore probabilità di incontrare difficoltà, spesso gravi, nel realizzare il pieno sviluppo della propria soggettività.

La precarietà, la condizione psicologica e sociale del minore immigrato o di origine immigrata, sono tratti che sembrano intrinsecamente connessi al fatto che questi soggetti sono come ingabbiati da una scelta subita, o meglio coinvolti negli esiti di una scelta che essi, proprio in quanto minori, hanno subito più di altri soggetti. È sempre difficile parlare di "scelta" a proposito di migrazioni, poiché l’effettivo contesto di scelta del migrante è, per definizione, sicuramente limitato. In tema di minori è comunque lecito ritenere che questi soggetti, proprio in quanto minori, subiscano la "scelta" di emigrare effettuata dai genitori (o comunque dagli adulti di riferimento). Inoltre, sia il minore che è effettivamente immigrato senza averlo propriamente deciso, sia il minore nato nel paese di immigrazione sono ulteriormente chiamati a effettuare un’altra scelta tra: l’adesione a una cultura maggioritaria che li taglierà per sempre fuori dalla loro storia, rischiando di renderli, di fatto, persone "senza radici", e la conservazione dell’ancoraggio a un passato e a una diversità, il cui peso si manterrà ancora nelle generazioni successive. Quest’altra scelta, che pure grava sui minori, non fa che perpetuare la loro condizione di precarietà. Si tratta infatti di una scelta impossibile, che, in quanto tale, iscrive il segno permanente dell’assurdo nell’esistenza stessa di questi soggetti. Una scelta che, come si diceva, non può essere effettuata ma, quasi sempre, è solo subita.

Gli studi psicologici, psichiatrici e sociologici hanno mostrato gli effetti traumatici prodotti dall’immigrazione nei minori che ne sono più o meno direttamente protagonisti. Si è voluto mettere particolarmente in luce gli effetti che permangono anche dopo il passaggio dalla prima alla seconda generazione. Si è parlato di separazione, di elaborazione del lutto e di processi di rimodellamento identitario, ponendo l’accento sul clima di conflitto interetnico e interculturale in cui essi avvengono. Questi studi hanno anche evidenziato gli aspetti per così dire "positivi" dell’immigrazione, intesa come evento che mette alla prova le capacità degli individui di superare i traumi che ogni cambiamento, ogni "momento di passaggio" inevitabilmente comporta. Tuttavia, la condizione di benessere del minore immigrato non può essere dedotta solo dall’entità dei traumi che egli è comunque chiamato a dover superare ma anche e soprattutto dalla presenza, oppure dall’assenza, delle caratteristiche di ospitalità e ricettività dell’ambiente in cui egli vive. Il fatto di poter contare su un ambiente stabile, accogliente, stimolante e ricettivo è il presupposto indispensabile di un’accettabile condizione di benessere, a prescindere dalle difficoltà che possono insorgere nella vita di ogni minore e a prescindere dai compiti, anche impegnativi, con i quali egli è chiamato a confrontarsi. Dal punto di vista ambientale, il principale ostacolo alla realizzazione di questa condizione va ravvisato nel rischio di discriminazione a cui il minore immigrato, o di origine immigrata, è esposto. La discriminazione, infatti, si frappone anche all’instaurarsi di un ambiente stimolante e ricettivo, essendo il principale elemento che procrastina, fino a renderla permanente, quella condizione di precarietà, che è già di per sé tipica dei minori immigrati. La discriminazione viene a configurare la permanenza del continuo ripresentarsi di quei "traumi accumulativi" conseguenti all’evento migratorio, i quali si perpetuano per più generazioni e, in alcuni casi, indefinitamente.

La discriminazione comporta, innanzitutto che il minore viva e cresca in un ambiente in cui sussistono condizioni oggettive tali da pregiudicare l’effettivo esercizio dei suoi diritti, condizioni che dunque minacciano direttamente e concretamente la costruzione della struttura più profonda del senso di stabilità e sicurezza. Le manifestazioni della discriminazione sono molteplici: dalle forme subdole ma pervicaci di disprezzo e di trattamento ineguale, a quelle più esplicite, che, non di rado, sfociano nell’aggressione verbale o fisica. È evidente quanto il clima discriminante possa incidere sul destino di queste giovani generazioni. Nel Regno Unito, paese tradizionalmente attento al tema della discriminazione, in questi ultimi anni vi è stato un notevole aumento del numero di espulsioni dalla scuola: solo una piccola minoranza di alunni esclusi dalla scuola secondaria rientra nel sistema educativo e in tal modo l’esclusione dalla scuola risulta un’esclusione sociale a lungo termine. Certi gruppi etnici sono rappresentati in maniera sproporzionata nel gruppo degli esclusi dalla scuola: questi alunni, denominati Black Carribean, benché costituiscano solo l'1,1% del totale della popolazione scolastica, rappresentano il 7,3% degli esclusi in modo permanente dalla scuola. Ciò significa che essi hanno maggiore probabilità rispetto ai loro coetanei bianchi (in rapporto di circa sei a uno) di venire espulsi dalla scuola. Il problema è particolarmente evidente per gli alunni di sesso maschile: quattro alunni maschi restano esclusi per ogni alunno femmina. Però, in termini percentuali la posizione delle alunne è persino peggiore di quella degli alunni: la probabilità di essere escluse è di circa otto volte maggiore, nei confronti della controparte bianca.

La discriminazione relega il minore immigrato in una specifica condizione di svantaggio, che va distinta da quella di altre categorie di minori "a rischio", anch’essi svantaggiati ma non "diversi" per la loro origine etnica o di immigrazione. La diversità dovuta all’origine può certo sommarsi, come spesso avviene, allo svantaggio socioeconomico ma permane come stigma che, in quanto tale, conferisce un carattere specifico alla condizione del minore immigrato.

Oltre all’ostilità di un contesto inospitale e al relativo clima di conflitto e violenza - esiti tipici delle pratiche discriminatorie - bisogna poi tener conto di un altro aspetto, per così dire "soggettivo", della precarietà del minore immigrato. È, infatti, noto come l’origine immigrata o l’appartenenza a una minoranza etnica si associno a maggiori difficoltà nel dare pieno e libero sviluppo alle "capacità" del minore. Ne sono esempi emblematici: l’influenza delle barriere linguistiche e culturali; l’azione negativa di stereotipi e pregiudizi su base etnica e razziale; la non condivisione con le componenti sociali maggioritarie delle stesse scale di valori. Esempi peraltro supportati dalle evidenze statistiche che mostrano le difficoltà scolastiche cui questi soggetti vanno incontro; oppure la loro minore rappresentanza nelle posizioni di maggior rilievo in ambito lavorativo, artistico o, comunque, nelle professioni per le quali è richiesto un più alto grado di formazione. Anche da questo punto di vista, il portato di diversità culturale - seppure, per altri versi, rappresenti una ricchezza - si traduce in una sorta di handicap (in rapporto ai livelli di performance "imposti" dal contesto ospite o maggioritario) che caratterizza in modo specifico i minori immigrati (rispetto ad altre categorie di soggetti che pure hanno scarsi indici di performance riconducibili ad altre cause) e configura ulteriori elementi di difficoltà e svantaggio.