Migrazioni e salute in Italia

Caritas Diocesana di Roma

 

Il rapporto tratta della salute degli immigrati in Italia, ripercorrendo l'esperienza dei molti Centri medici per stranieri. Nel 1983 a Roma, ma già prima, alla fine degli anni Settanta, a Genova e Bologna, e subito dopo, nel 1987, a Milano, Palermo, Firenze, Verona e ancora a Messina, Brescia, Torino, Catania e via via sia in grandi città, sia in piccoli centri, sorsero molti ambulatori.

Si tratta di centri di medicina di primo livello, la medicina di base, per gli stranieri, gli immigrati extracomunitari come si chiamavano allora, i nuovi cittadini di oggi, che privi di diritti erano e sono presenti nelle nostre città.

E i primi dati sulla salute degli immigrati vengono proprio da questi centri popolati di volontari, alcuni idealisti, altri semplicemente attenti ai nuovi bisogni e che progressivamente sono riusciti a riunirsi e a mettere in rete almeno le conoscenze e le scoperte.

 

I pionieri: l'effetto migrante sano

Molte delle informazioni disponibili sulle patologie più frequentemente riscontrate in migranti, come abbiamo detto, provengono da ambulatori gestiti dal volontariato sociale e non possono essere correttamente confrontate tra loro e con i dati delle strutture pubbliche, nel caso che adottino sistemi di classificazione diversi. Ciò malgrado, si è osservata in questi anni tra i vari centri una sostanziale sovrapponibilità dei dati clinici raccolti. Gli interventi diagnostico-terapeutici prestati a immigrati hanno riguardato prevalentemente: l'apparato respiratorio (in particolari nei mesi invernali, riconducibili a patologie acute); l'apparato digerente (per disturbi digestivi ricorrenti: gastropatie, disturbi della motilità intestinale, ecc.); quello osteomuscolare (patologie ortopediche di varia natura, traumatologia leggera, artropatie da postura scorretta, infiammazioni o lesioni muscolari di origine lavorativa); pelle e mucose (da segnalare l'elevata frequenza di 'prurito sine materia': un disturbo senza base eziologica organica); l'apparato genito-urinario (uretriti aspecifiche e cistiti ricorrenti); la sfera ostetrico-ginecologica (di rilievo crescente insieme a quella pediatrica). Basso, contrariamente alle attese, è stato finora il riscontro di diagnosi psichiatriche, limitata è anche l'evidenza di patologie infettive, per la maggior parte di tipo nostrano (del tutto occasionale il riscontro di quelle esotiche di importazione). Percentualmente rilevante è la classe dei 'sintomi e stati morbosi mal definiti', non collegabile a una scarsa qualità clinico-diagnostica degli operatori quanto piuttosto alle difficoltà comunicative caratterizzanti il rapporto terapeutico e talora a vincoli economici relativi alle procedure diagnostiche e a esami di laboratorio più sofisticati (ciò è vero soprattutto per le strutture gestite dal volontariato). Alcune differenze tra centro e centro di assistenza, nel peso relativo dei vari gruppi di patologie, possono dipendere da una maggiore offerta di prestazioni di una particolare specialità.

Strutture sanitarie sia di tipo istituzionale che del privato sociale hanno sottolineato come, nella maggior parte dei casi, la prima richiesta di cura si è, almeno fino a un recente passato, manifestata temporalmente distinta dall'arrivo in Italia. È il cosiddetto 'intervallo di benessere': questo viene abitualmente calcolato ricostruendo, su base anamnestica, il periodo intercorso tra l'arrivo in Italia e la prima richiesta di assistenza sanitaria, pure quantitativamente variabile da una città all'altra.

Attualmente questo dato è molto discusso: alcune osservazioni tendono oggi ad affermare che questo intervallo si sia bruscamente accorciato negli ultimi anni. L'esperienza della Caritas, i cui studi inizialmente furono particolarmente significativi proprio nella quantificazione di tale intervallo, solo in parte conferma tale ipotesi in quanto quasi il 45% dei nuovi pazienti degli ultimi due anni, ha utilizzato per la prima volta un ambulatorio medico dopo un anno dall'arrivo in Italia e il 10,5% dei pazienti (8% tra le donne) è in Italia da almeno tre anni al momento dell'utilizzo della struttura sanitaria per la prima volta. Ciò è in linea con le osservazioni, su cui ritorneremo, che un 'effetto migrante sano' vale ancora per molti seppur con una attenuazione per chi viene 'a seguito' di progetti migratori già percorsi da altri o è costretto a 'scappare' (profughi e rifugiati).

L'immigrato arriva generalmente nel nostro paese con un 'patrimonio' di salute pressoché integro: si consideri come proprio la forza-lavoro, su cui questi gioca le possibilità di successo del proprio progetto migratorio, sia indissolubilmente legata all'integrità fisica; è il cosiddetto 'effetto migrante sano', ampiamente citato in letteratura, che fa riferimento a un'autoselezione che precede l'emigrazione, operata cioè nel paese di origine.

Risulta d'altronde estremamente logico che il tentativo migratorio, soprattutto in una fase iniziale, venga messo in atto da quei soggetti che, per caratteristiche socio-economiche individuali e per attitudini caratteriali, massimizzano le possibilità di portare a buon fine il progetto migratorio: sono i "pionieri" della migrazione della propria famiglia, gruppo, paese. Questo esclude in partenza individui che non godano di apparenti buone condizioni di salute: non è certo casuale che chi emigra abbia in genere un'età giovane adulta; che appartenga, nel proprio paese, alle classi sociali meno svantaggiate (quelle più povere non potrebbero sostenere neppure le spese di viaggio); che abbia per lo più un grado di istruzione medio.

Tali considerazioni supportano l'evidenza che le patologie d'importazione si siano dimostrate, nella prima generazione di migranti, di minor frequenza di quelle acquisite nel paese ospitante e di quelle cosiddette di adattamento.

E questa è una prima scoperta: l'immigrato non ci porta malattie esotiche come periodicamente è evocato da alcune allarmanti quanto infondate dichiarazioni riportate con grande enfasi dai mass media, ma piuttosto è una persona da tutelare e proteggere dal punto di vista sanitario. Infatti le complessive condizioni di vita cui l'immigrato dovrà conformarsi nel paese ospite, potranno poi essere capaci di erodere e dilapidare, in tempi più o meno brevi, il 'patrimonio' di salute iniziale. Sfuggono ovviamente a questo schema interpretativo le situazioni in cui il migrante sia portatore di patologie che, in quanto ancora asintomatiche, o per scarso livello sanitario del paese di origine, o perché culturalmente non considerate come tali (emblematica è la consuetudine all'infestazione malarica in paesi ad altissima endemia), non lo scoraggino a partire. Vi sono tra queste alcune patologie infettive (come l'epatite B ed in parte anche la tubercolosi che però molto risente delle condizioni di vita nel paese ospite), che, ad alta endemia in molti paesi d'esodo, meritano un'attenta sorveglianza e controllo, non altrimenti ottenibile che con interventi volti a favorire al massimo l'accessibilità e la fruibilità dei servizi sanitari e, in alcuni casi, la non onerosità delle prestazioni necessarie; a queste stesse patologie sarebbe quanto mai opportuno dedicare specifici progetti di educazione sanitaria.

Infine è da evidenziare come dai dati di ricovero ospedaliero seppure non uniformemente raccolti, emergano con maggior evidenza, rispetto alle strutture di primo livello, situazioni indifferibili di domanda sanitaria (è il caso della gravidanza, del parto e della interruzioni volontarie della gravidanza-ivg.) o situazioni di bisogno legate a una maggiore esposizione sociale e lavorativa (incidenti e traumatismi). Rispetto all'ivg. si è purtroppo evidenziata, progressivamente, una 'forbice' crescente tra giovani donne straniere ed italiane; in progressiva diminuzione tra le autoctone e in preoccupante aumento tra le immigrate.

I primi anni Novanta sono caratterizzati da studi che sottolineano quanto detto e dall'impegno del volontariato che, con argomenti sufficientemente supportati da riscontri scientifici, si contrappone al pregiudizio di immigrato come untore, all'esotismo che vede nell'altro, nel chi viene da un altrove, qualcuno da controllare e comunque da non includere in un sistema di cura se non per 'bonificarlo'.

Studi e ricerche permesse anche dalla capacità di messa in rete delle informazioni e delle esperienze che hanno portato all'inizio degli anni Novanta alla fondazione di una società nazionale per il collegamento e lo scambio scientifico-organizzativo, la Simm (Società Italiana di Medicina delle Migrazioni) e sempre dal 1990 la realizzazione di uno spazio d'incontro condiviso nella Consensus Conference sui temi dell'immigrazione che si tiene ogni due anni a Palermo.

 

La stabilizzazione: l'emersione di aree critiche per la salute

Gli stranieri in Italia provengono da quasi 150 paesi diversi, di tutti i continenti. Questa è una caratteristica peculiare dell'immigrazione nel nostro paese che ha fatto evocare l'immagine di un caleidoscopio di persone, culture e religioni ma anche diversità per patrimonio genetico (in rapporto ad alcune malattie ereditarie per altro ancora estremamente rare) e per capacità di adattarsi ed interagire ai nuovi sistemi sociale e sanitario del paese ospite. Se una prima fase dell'immigrazione è stata caratterizzata prevalentemente da pionieri e se l'effetto migrante sano è ancora oggi valido per chi sceglie di emigrare e valuta la possibilità di sopportare il costo dell'emigrazione chiaramente non solo in termini economici, certamente già dall'inizio e soprattutto adesso, queste considerazioni sulla condizione della salute all'arrivo del migrante non valgono per chi è costretto a partire, a scappare spesso, da gravi situazioni politiche, di guerra, di persecuzione, che pongono a rischio non solo il proprio futuro ma anche l'immediato presente. Sono questi, in misura diversa ma sempre con una particolare vulnerabilità, i profughi, gli sfollati ed i rifugiati.

L'effetto migrante sano tende anche ad avere minor importanza man mano che l'immigrazione si stabilizza nel paese ospite. Tale effetto non è sempre riscontrabile nei confronti di chi viene con progetti migratori 'trainati' da altri o semplicemente per percorrere strade tracciate e semplificate da parenti o amici. Il profilo di salute inoltre cambia man mano che cambia il profilo demografico dell'immigrato perché si verifica una sedimentazione sul territorio (nuove generazioni, anziani, ...). Da non dimenticare il costo fisico di un percorso migratorio sempre più difficile e logorante soprattutto per chi entra irregolarmente o chi fugge, sfruttato da chi approfitta della disperazione.

Certo è che qualunque sia il patrimonio di salute in 'dotazione' al migrante, più o meno rapidamente viene dissipato per una serie di 'fattori di rischio' per malattie che incombono nel paese ospite soprattutto se i processi di integrazione sono lenti e vischiosi: il malessere psicologico legato alla condizione di immigrato, la mancanza di lavoro e di reddito, la sottoccupazione in professioni lavorative rischiose e non tutelate, il degrado abitativo in un contesto diverso dal paese di origine, l’assenza del supporto familiare, il clima e le abitudini alimentari diverse spesso inserite in una condizione di status nutrizionale compromesso, la discriminazione nell’accesso ai servizi sanitari nonostante le leggi.

Esistono infatti alcune situazioni che delineano una 'spiccata sofferenza sanitaria' proprio negli ambiti della medicina preventiva che hanno permesso al nostro paese, come in tutti quelli occidentali, di configurarsi come paese ad alta protezione: in particolare ci riferiamo all'area materno infantile e specificatamente il parto e le vaccinazioni. Dove sono state effettuate ricerche, che ancora purtroppo sono spesso a macchia di leopardo, si evidenzia un alto rischio di parti distocici, con sofferenza perinatale svariate volte superiore all'autoctone. I calendari vaccinali sono spesso in ritardo o incompleti, con particolare riferimento alla popolazione zingara.

Se in una prima fase l'immigrato può essere particolarmente vulnerabile per le condizioni di degrado e disagio in cui è costretto a vivere, col tempo, superata l'emergenza, prevale la possibilità/capacità di interagire con l'organizzazione, l'offerta dei servizi, la capacità di lettura dei propri bisogni di salute e di saperli spiegare e, viceversa, la capacità del sistema sanitario del paese di adattarsi a questa nuova utenza.

Non a caso l'attenzione del mondo sanitario, dei volontari ma anche di alcuni operatori di strutture pubbliche, impegnato nell'accludere questi nuovi cittadini nel sistema di promozione della salute, si sposta dalla risposta sanitaria all'impegno per l'emersione dei diritti.

Il 1995 è l'anno in cui avviene una svolta nella politica di assistenza agli stranieri. L'inizio di quell'anno è stato caratterizzato da una serie di fatti che hanno innescato una 'reazione a catena' che ha portato ad affrontare in poco tempo la problematica.

Un convegno organizzato a Roma nel mese di gennaio dalla Caritas dal titolo "Immigrazione e salute: una politica dell'oblio", ha sottolineato con forza la necessità di una politica sanitaria adeguata alle realtà immigratoria e sociale.

Da quell’incontro e da altri successivi emerge la proposta di legge che, sostenuta da oltre 200 parlamentari di tutte le forze politiche, dal ministro e dal governo portò nel novembre del 1995 alla promulgazione all'interno di un decreto legge sull'immigrazione (Decreto Dini) di quelle norme che finalmente garantivano l'assistenza sanitaria anche ai clandestini.

Da allora molta strada è stata fatta, attraverso decreti, circolari, ordinanze ed oggi grazie all'ultima legge sull'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998) si è stabilizzato un diritto come quello alla salute per gli stranieri, facilitando l'inclusione nel sistema degli immigrati regolarmente presenti e comunque garantendo delle prestazioni essenziali e preventive anche a coloro che sono irregolari e clandestini. Un atto di civiltà e d'esempio in un mondo occidentale che progressivamente si arrocca su se stesso anche a discapito del riconoscimento di alcuni diritti fondamentali (recentemente negli Stati Uniti è stata votata una legge che impedisce di fatto l'accesso alle cure da parte degli immigrati regolari nei primi cinque anni di permanenza nel paese americano).

Garantire l'accesso ha fatto emergere comunque alcune aree critiche per la salute schematicamente suddivisibili in:

a) condizioni patologiche con particolare riferimento a quelle infettive e al disagio psichico, importanti non tanto per la consistenza numerica o per patologie importate dai paesi di provenienza, quanto per la scarsa preparazione e dimestichezza dell'operatore sanitario nel gestire malattie, stati d'animo, condizioni sociali e relazionali inconsuete;

b) condizioni fisiologiche come la gravidanza e comunque tutto l'ambito materno infantile con, ad esempio, tassi di mortalità perinatale significativamente più alti tra i figli di straniere immigrate;

c) condizioni sociali come la prostituzione, che vede come protagonisti spesso obbligati, donne e uomini stranieri, o anche la detenzione.

 

Lo scenario futuro: occasione di incontro o rischio di disuguaglianze?

Per guardare al futuro ci sembra opportuno ricordare il passato, ed in particolare alcuni studi sulla mortalità relativa al fenomeno dell'immigrazione interna italiana di circa 40 anni fa dal sud verso il nord, monitorati nel tempo. Essi riportano condizioni molto simili alle attuali relative agli immigrati da paesi in via di sviluppo e cioè che negli anni immediatamente successivi all'immigrazione il rischio di morire fosse di molto inferiore a quello dei cittadini autoctoni di pari età e sesso e come con il passare degli anni il rischio (di morire ma anche di ammalare) andasse peggiorando fino a diventare uguale se non superiore per alcune cause di morte, a quello della popolazione ospite.

Paradossalmente c'è il rischio che gli immigrati man mano che invecchia la storia migratoria, possano integrarsi con la società ospite condividendo la stratificazione sociale più svantaggiata, che fa più fatica a tenere il passo, e possano anche condividere il profilo di salute della disuguaglianza; questo non solo in termini di fasce estreme del fenomeno (disuguaglianza tra i più ricchi ed i più poveri) ma in qualsiasi punto della scala sociale con significative differenze peggiorative degli indicatori di salute, mortalità e morbosità, oggettiva e percepita, da chi sta più in basso rispetto a chi sta più in alto.

La sfida di oggi è quella di una completa integrazione sociale di questi nuovi cittadini e, per quel che riguarda la sanità, garantire loro una reale fruibilità dei servizi e delle prestazioni. Pensare a una organizzazione adeguata, a una capacità comunicativa efficiente, a una compatibilità culturale, alla formazione specifica del personale è ancora una volta un'occasione per il nostro sistema di ripensare se stesso e renderlo più fruibile e attento anche alla popolazione italiana.